Resoconto seduta n.13 del 25/10/2005
La seduta inizia alle 15,10


PRESIDENTE. Saluto tutte le autorità e i cari convenuti che vedo così numerosi, il che rafforza la nostra idea che stiamo trattando una eredità viva e non qualche cosa da consegnare agli archivi.
Vorrei innanzitutto rivolgere a voi tutti un caloroso saluto ed un ringraziamento per avere accolto l’invito a riunirci qui, quest’oggi, per una seduta del Consiglio regionale delle Marche dedicata al 60° Anniversario della Liberazione.
Ringrazio la Conferenza dei gruppi consiliari per avere scelto Cantiano, luogo emblematico della provincia di Pesaro e Urbino. Ringrazio il sindaco per averci ospitato, il presidente della Provincia, il direttore del Museo statale di Auschwitz, i rappresentanti delle associazioni partigiane, gli autorevoli relatori per essere con noi in questo pomeriggio.
La città di Cantiano ha avuto un ruolo importante nella Guerra di Liberazione ed alto fu il tributo di sangue versato. Furono molti i partigiani che aderirono alla V Brigata Garibaldi che operava militarmente tra i monti Catria e Nerone, presidiando vie di comunicazione strategicamente rilevanti e ostacolando i movimenti dei nazifascisti.
Fu così alta la partecipazione delle donne, che oggi ricorderemo con un filmato e delle campagne cantianesi, da fare della Guerra di Liberazione un vero e proprio fatto di popolo, tanto estesa fu la partecipazione.
La Resistenza fu infatti anche questo: un momento importante di protagonismo e di attivismo di settori della società che la storia l’avevano sempre subita: contadini, mezzadri, boscaioli, piccoli artigiani. Sarà dal risveglio e dal protagonismo di queste persone che nascerà quel riscatto morale, sociale e democratico delle Marche, premessa dello sviluppo senza fratture conosciuto nel secondo dopoguerra. Il legame rinsaldato in quelle vicende drammatiche, tra organizzazioni democratiche e mondo contadino sarà poi alla base della capacità marchigiana di governare senza fratture l’uscita dalla società agricola verso quella industriale, la trasformazione delle nostre campagne e delle nostre città senza creare gravi squilibri sociali.
Cantiano, come riconoscimento della sua partecipazione, nel febbraio del 1964 ha ottenuto dalla Presidenza della Repubblica la Medaglia di Bronzo al valore civile. Sarà però il sindaco, nel suo intervento, a celebrare il ricordo e l’importanza delle vicende accadute, come sarà il presidente della Provincia di Pesaro e Urbino a parlare di quei drammatici anni vissuti conseguentemente alla scelta tedesca di allestire nel territorio provinciale il versante orientale della linea gotica, baluardo difensivo che avrebbe dovuto, nella intenzione dei tedeschi, sbarrare la strada all’ingresso degli alleati nella Pianura Padana.
Fu l’importanza di quel disegno difensivo a far sostenere all’intera popolazione della provincia ed in particolare a quella della fascia costiera la pesantezza dello scontro tra le truppe nazifasciste da una parte e il movimento di liberazione e l’esercito alleato dall’altra. Pesaro, ad esempio, subì numerosi violentissimi bombardamenti che provocarono la morte di numerosissimi cittadini, tra cui molti bambini, la quasi totale distruzione dell’abitato e del patrimonio industriale ed agrario.
La Guerra di Liberazione ebbe nella provincia di Pesaro e Urbino una assoluta importanza strategica, una estensione territoriale, una quantità di località e persone coinvolte, una drammaticità che ha messo la Presidenza della Repubblica nella condizione di conferire, il 31 marzo del 2005 la Medaglia d’Argento al merito civile all’intera provincia di Pesaro e Urbino.
Tutte le motivazioni dei riconoscimenti conferiti a città e provincia recano un tratto unificante: il ricordo del coraggio dei partecipanti alla lotta partigiana, delle perdite umane, della distruzione del patrimonio industriale e civile, del generoso spirito di solidarietà umana dimostrato dalla popolazione.
Difficile è ancor oggi, a 60 anni da quei terribili anni di guerra, capire fino in fondo, immaginare, comprendere pienamente quanto allora avvenne. Per questo vogliamo rendere fede a quello che più volte il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha definito il “dovere della memoria”, dovere civile, dovere morale che attiene strettamente alla identità della nazione.
Colgo quindi l’occasione per salutare e ringraziare della loro presenza i rappresentanti delle associazioni combattentistiche e dei partigiani, tutti testimoni di quei giorni, oggi presenti. I protagonisti, purtroppo, per una legge naturale si stanno diradando. Per lunghi anni hanno portato instancabili il loro apporto civile e morale, aiutandoci a comprendere, a capire. Nei prossimi anni il compito di perpetuare questa memoria passerà sempre più alle istituzioni politiche e culturali ed alle nuove generazioni, perché è importante che i giovani siano consapevoli e coscienti dei sacrifici che la costruzione di questo nostro assetto politico e sociale ha comportato, per non ripetere gli stessi errori. Ma ricordare gli avvenimenti non può bastare, abbiamo bisogno di continuare a studiarli per capirne a fondo il significato, per meglio mettere a fuoco gli eventi attuali.
Vogliamo per questo che la giornata di oggi esprima la consapevolezza che il confronto con la nostra storia ci aiuta a mantenerla come eredità viva, ad evitare il rischio che resti muta testimonianza d’archivio o esclusiva elaborazione specialistica.
Anche per questo come Regione abbiamo aderito con piacere alla richiesta del sindaco di Cantiano di aiutare la città a dotarsi di un Monumento alla Resistenza progettato da un bravo scultore locale, Bruno Marcucci. Nell’aderire a questa richiesta faremo sì che il monumento, che ricorda i Caduti per la Libertà, si accompagni, ovviamente in un’altra sede, al monumento già esistente, il monumento che ricorda la Medaglia d’Oro al Valor Militare Francesco Tumiati e due slavi, Batrik Bulatovic e Kuzeta Giuro, fucilati il 17 maggio del 1944 nei pressi del cimitero di Cantiano.
E’ con il ricordo di alcuni atti di amore che voglio chiudere la mia breve introduzione prima di dare la parola al sindaco di Cantiano.
Il primo è quello di Francesco Tumiati, ferrarese, giovanissimo, studente universitario, figlio del preside della facoltà di legge dell’università di Ferrara e deputato nazionale liberale, morto fucilato il 17 maggio 1944 a Cantiano. Voglio ricordare, attraverso la sua figura, tutti coloro che si sono battuti per porre le basi di una società e di un’Italia diversa, nuova, civile e democratica. Per molti di loro fu un vero atto d’amore per la libertà a spingerli ad offrire la propria vita per raggiungere l’obiettivo. Quegli atti d’amore hanno conferito una forza straordinaria alla Guerra di Liberazione prima e alla politica poi, mettendole in grado di imboccare la strada della repubblica e della democrazia nel rispetto delle diverse ideologie. Quegli atti d’amore hanno continuato a lungo a conferire ai protagonisti di quegli anni un prestigio ed un’autorevolezza che sono stati alla base di un cinquantennio di crescita sociale ed economica e ci ricordano oggi la forza che l’amore e la saggezza possono conferire alla politica.
Il secondo è quello di Pasquale Rotondi, nato ad Arpino, provincia di Frosinone, che questa sera ricordiamo con un bellissimo documentario girato dal regista Saponara. Si tratta del soprintendente alle gallerie delle Marche dal 1939 al 1949 che combatté una battaglia intelligente e di grande coraggio. Salvò infatti dai tedeschi che volevano trasferirle in Germania 6.509 opere di grandissima importanza artistica, archeologica, bibliografica provenienti dai musei delle Marche, da Venezia e da un’isola d’Istria, conservandole nella Rocca Martiniana di Sassocorvaro. E salvò anche 112 casse provenienti da Milano, 70 da Venezia, 29 da Roma contenenti opere di primaria importanza, presso il Palazzo dei Principi in Carpegna.
Il Montefeltro dunque, grazie al lavoro intelligente e appassionato di Rotondi, custodì a lungo, in quegli anni, la più grande concentrazione di opere d’arte messa insieme nella storia dell’umanità. E’ grazie a queste persone e a tantissime altre, anonimi ed umili, che hanno sentito forte l’anelito di libertà, che oggi, di fronte a sfide nuove ed inedite possiamo guardare alle esperienze passate come a risorse cui attingere. E’ per questo motivo — e ringrazio di nuovo la Conferenza dei presidenti di gruppo — che abbiamo deciso di tenere un Consiglio regionale aperto in questa città, perché la memoria è viva, non deve mai morire e deve essere un assoluto alimento per la costruzione del nostro futuro in giorni difficili come gli attuali.
Do ora la parola al sindaco Panico.

Martino PANICO, Sindaco di Cantiano. Saluto a nome del Consiglio e dell’intera Amministrazione comunale di Cantiano il presidente Luigi Minardi, il presidente della Giunta regionale Gian Mario Spacca, i membri del Consiglio regionale e i membri della Giunta regionale delle Marche, il presidente della Provincia Palmiro Ucchielli e il presidente del Consiglio provinciale Leonardo Talozzi, i rappresentanti delle associazioni partigiane e tutti i partigiani e loro familiari che con la loro presenza ci onorano. Saluto i relatori e i colleghi sindaci che in qualche modo hanno voluto rendere ancora più importante questa occasione.
Ringrazio davvero di cuore per avere scelto la nostra comunità come luogo ove celebrare il 60° Anniversario della Liberazione, il 60° della vittoria degli italiani sul nazifascismo, il 60° della democrazia e della libertà riconquistate.
Confesso che quando il presidente Minardi mi ha proposto di tenere qui questa iniziativa speciale, sono stato colto da un moto di naturale preoccupazione, ma soprattutto di orgoglio. Orgoglio per una scelta che ci fa onore, che ci gratifica, che resterà nella storia non solo istituzionale della nostra comunità. Ma poi a freddo, oltre alla gratitudine per la proposta, mi sono tornati in mente i dati. I dati di quei dolorosissimi ed eroici momenti, che la nostra comunità ha vissuto in maniera profonda, intensa, quasi totalizzante.
So che ci sono altri centri della provincia e della regione che hanno dato un tributo di sangue certamente maggiore, in quel periodo tormentatissimo dell'ultima guerra mondiale. Da noi basti ricordare Fragheto di Casteldelci con oltre 30 vittime tra donne, vecchi e bambini trucidati oppure le centinaia di morti del bombardamento di Urbania. Ma Cantiano ha dato un contributo straordinario e particolare alla lotta partigiana e quindi alla liberazione del nostro territorio e dell'intera provincia di Pesaro e Urbino. Un contributo di passione, di tensione ideale quasi a costruire una parte di quell'anima indispensabile per alzarsi e resistere. Un comune sentire diffuso, un sentimento che a Cantiano era facile trovare, perché nei venti anni del fascismo quel sentimento non si era mai sopito, grazie al lavoro di Adele Bei, di Ubaldo Vispi e di Nazzareno Luchetta.
Qui si sono formate le prime brigate partigiane, qui nei primi di novembre del 1943 Erivo Ferri, mitico comandante della V Brigata Garibaldi Pesaro, ebbe il primo conflitto a fuoco con i militi dell'Ovra ed in quel punto stiamo valutando di realizzare un'opera a ricordo dell'evento.
Qui si concentrano gli intellettuali, gli operai e gli studenti antifascisti di tutta la provincia. De Sabbata, Volpini, Isotti, Severi, Cecchi, Vianello, Mari che poi saranno i futuri dirigenti politici, organizzarono qui la loro Resistenza, che vive il primo momento vittorioso nella battaglia di Vilano del 25 marzo 1944. Battaglia vinta in verità da tanti cantianesi che nel frattempo avevano aderito in massa alle organizzazioni partigiane: 199 coloro che parteciparono alla V Brigata Garibaldi, di cui 38 donne, che da sole rappresentavano oltre il 60% dell'intera presenza femminile nelle file dei resistenti e molti che non erano in montagna erano rinchiusi nei campi di concentramento. Alla fine il bilancio fu di due morti in combattimento, quattro torturati e poi fucilati, tre uccisi durante i rastrellamenti o durante i bombardamenti, moltissimi feriti, numerosissimi gli atti d'eroismo quasi quotidiani culminati nel sacrificio di Augusto Fiorucci l’1 maggio 1944.
Cari ospiti, il nostro gonfalone si fregia della decorazione al valore per la Resistenza. Due dei caduti sono stati decorati con Medaglia d'Argento e Medaglia d'Oro. Ma al di là dei dati ciò che conta è che i cantianesi ospitarono, nutrirono, sostennero i partigiani: ogni casa è stata rifugio, ogni famiglia è stata impegnata in interventi di solidarietà, di informazione, di vigilanza protettiva. Solidarietà e protezione prestate senza distinzioni per le varie provenienze regionali o nazionali: slavi, russi' montenegrini, meridionali o settentrionali. La nostra comunità ha vissuto coralmente la Guerra di Liberazione, affrontando con eroica semplicità e consapevolezza l'alto prezzo da pagare per riconquistare la libertà. La nostra tradizionale mitezza divenne coraggio e determinazione. Di questo siamo davvero orgogliosi: siamo orgogliosi di aver contribuito a costruire lo Stato dei diritti e dei doveri, a ripristinare i valori della convivenza civile, di giustizia sociale, del dialogo, del confronto pacifico delle opinioni, dell'equilibrio democratico dei poteri, della tolleranza, del lavoro per la pace. In buona sostanza di aver portato il nostro piccolissimo contributo alla stesura quella Costituzione repubblicana a cui teniamo tanto.
A distanza di 60 anni credo che sia più che scontato nutrire rispetto e umana pietà verso i morti di qualsiasi parte. Ed è certo che dopo tanti anni bisognerà pur comprendere i motivi, anche quelli sbagliati, che portano tanti ragazzi italiani, molti di loro giovanissimi, a schierarsi da una parte o dall'altra. Ma questo non potrà mai significare un cambio nella valutazione storica. Né potrà mai significare nessuna revisione storica sui torti e sulle ragioni di allora. E vorrei citarli quelli che avevano ragioni allora, soprattutto per indicarli ai giovani di oggi, ai ragazzi della scuola media di Cantiano che peraltro saluto insieme con i loro insegnanti. Quegli eroici ragazzi, peraltro normalissimi, che con il loro sacrificio, 60 anni fa ci hanno riconsegnato libertà e democrazia e l'impegno irrinunciabile a conservarle ed ad estenderle in tutto il mondo con intelligenza e lungimiranza.
Grazie, Tommaso Cordelli e Francesco Battilocchio. Grazie, Augusto Fiorucci. Grazie Antonio Guglielmi, Luigi Tarquini e Santa Rabbini. Grazie Batrik Bulatovic e Kuzeta Giuro. Grazie comandante Francesco Tumiati. Grazie!

PRESIDENTE. Ha la parola il sen. Palmiro Ucchielli, presidente della Provincia di Pesaro e Urbino.

Palmiro UCCHIELLI, Presidente della Provincia di Pesaro e Urbino. Un cordiale saluto al presidente del Consiglio regionale, al presidente della Giunta, ai consiglieri regionali, agli assessori, ai sindaci, a tutte le autorità qui convenute per questo importante appuntamento.
Siamo lieti che si sia scelto il nostro territorio e la cittadina di Cantiano per celebrare questa giornata del Consiglio regionale aperto, dedicato alla commemorazione del 60° Anniversario della Liberazione.
Questa occasione, per noi, ben si inserisce in un percorso, che abbiamo delineato lungo questi due anni e che troverà il suo coronamento il mese prossimo con la visita del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che conferirà alla provincia di Pesaro e Urbino la Medaglia d’Argento al Valore Civile, per gli eventi legati alla linea gotica e alla Guerra di Liberazione.
Nello svolgimento dei progetto triennale che abbiamo elaborato come Amministrazione, in stretta collaborazione con i Comuni e i diversi soggetti del territorio, dal titolo “Sulle tracce della libertà” si è voluto riaffermare la centralità del movimento di liberazione nella storia della nostra comunità e del nostro paese, fondativo della nostra identità di società libera, pluralista e democratica.
Molte sono le iniziative che, anche grazie al sostegno della Regione Marche che colgo l’occasione per ringraziare, nell’ambito della legge n. 8 del 28 aprile 2004, si sono succedute in provincia.
Tra le iniziative promosse alcune sono state più generalmente rivolte al ricordo di episodi centrali della nostra storia provinciale, altre invece sono state indirizzate a studiare e far riflettere su episodi meno noti, ma non per questo meno importanti quali, ad esempio, le stragi compiute da nazisti e fascisti e la partecipazione delle donne alla Guerra di Liberazione.
L’iniziativa sui crimini nazifascisti, a ridosso del 25 aprile, e quella sul ruolo delle donne nella Resistenza (del cui video vedremo un piccolo contributo), vanno nella direzione di riscoprire e far conoscere aspetti centrali, fondamentali della nostra storia che per troppo tempo sono rimasti in ombra, non sufficientemente conosciuti dai cittadini.
Non ci si è fermati alla ricerca storica ma questa è stata intesa quale momento di approfondimento per dare contenuti alla divulgazione e alla didattica. Video, convegni, corsi di aggiornamento, concorsi scolastici, viaggi della memoria si sono succeduti in maniera intensa e positiva, come ad esempio l’ultimo del bel convegno di Pesaro del 20-21 ottobre sulla nascita dell’Italia libera che ha aggiornato 150 insegnanti del territorio marchigiano.
Dato che è qui presente il direttore del memoriale del campo di Auschwitz citerò un’altra bella attività del progetto provinciale e cioè i viaggi della memoria organizzati dall’Istituto di storia contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino a cui partecipano i ragazzi vincitori del concorso scolastico della Provincia. Questa estate sono stati a visitare i luoghi di Mauthausen, Terezin, Lidice, rafforzando in loro non solo una conoscenza diretta di quei tragici eventi storici ma anche una coscienza democratica più aperta allo scenario internazionale ed in particolare europeo: il prossimo anno torneranno proprio ad Auschwitz.
La conquista dei pieni diritti civili e politici per tutta la popolazione, senza discriminazione di sesso, religione, origini familiari, convinzioni politiche avvenne per l’appunto, con la Resistenza e venne sancita dall’Italia repubblicana.
Per questo riteniamo che questa attività debba proseguire anche nel prossimo anno con iniziative dedicate a festeggiare degnamente il 60% anniversario della Repubblica.
Trasmettere le idee e gli avvenimenti che contribuirono a far sì che questi valori si affermassero e restassero saldi negli anni a venire nella Carta costituzionale a livello nazionale e nell’Unione europea per l’intero continente è, crediamo, il migliore investimento per il futuro delle nostre comunità, del nostro paese, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

PRESIDENTE. Ha la parola Emilio Ferretti, presidente regionale dell’Anpi.

Emilio FERRETTI, Presidente ANPI Marche. Vi porto il saluto dell’Associazione nazionale partigiani italiani, unitamente a quello della Fiap e della sua presidente Livia Pergoli che non è potuta intervenire a questo incontro e di Roberto Rabini, presidente dell’Associazione partigiani cristiani.
Nelle Marche è stata presente un’unica formazione, le Brigate Garibaldi, però all’interno di questa unica formazione partecipavano elementi di diverse categorie sociali e politiche. Dopo la Liberazione purtroppo, ci fu la scissione determinata dalla “guerra fredda”, ma la collaborazione tra le nostre forze è continuata e continua ancora. Noi ci auguriamo che si ritorni ad un’unica organizzazione delle forze della Resistenza ed importante è che si vada avanti uniti, perché nell’unità sempre si vince.
Al saluto che ho rivolto alle autorità, al saluto che rivolgo a tutti i consiglieri regionali rivolgo un saluto ai giovani, perché è importante la presenza di questi giovani alle celebrazioni dell’anniversario della Liberazione.
Il presidente Minardi diceva che il ricordo del passato garantisce il futuro: questa è la ragione per la quale è necessario che nelle scuole, in mezzo ai giovani, di questi temi si parli affinché nessuno dimentichi il lungo trascorso e la guerra, che ha significato avere nel mondo 55.788.000 morti. Questo bisogna ricordarlo sempre, ricordare i responsabili di questa grande tragedia dell’umanità.
Le parole dette dal presidente Minardi, dal sindaco di Cantiano, dal presidente della Provincia di Pesaro e Urbino mi esimono dal ricordare le vicende che hanno significato la Resistenza nella nostra regione, mi esimono dal ricordare fatti e avvenimenti. Potrei ricordare Carlo Mari che è stato uno dei comandanti; potrei ricordare Marco, uno dei commissari politici, un mio amico che veniva da Ancone e ha operato in questa zona. Ma i nomi sono tanti, quindi il quadro della Resistenza nelle Marche è un quadro significativo.
Nella nostra regione abbiamo avuto 1.237 caduti nelle diverse province, in tanti comuni e luoghi. Ci sono stati nella nostra regione 801 partigiani appartenenti ad altri paesi, in particolare della costa adriatica, della Jugoslavia. Si sono qui costituiti i gruppi di combattimento e i volontari del Cil sono stati 638. Noi volevamo continuare la nostra lotta come formazioni partigiane, ma non fu possibile, quindi ci arruolammo nelle forze armate ricostituite del nostro paese.
Questi avvenimenti è bene che vengano sempre ricordati.
Si diceva che l’Anpi inevitabilmente, per un fatto naturale è ad una fase conclusiva. Io dico invece che l’Anpi deve continuare. Noi ci stiamo preparando per andare al XIV Congresso nazionale e l’Anpi non può essere una organizzazione da liquidare, deve continuare. L’Anpi è stata presente e ha partecipato a tutte le vicende che hanno caratterizzato la situazione del nostro paese, dall’eversione golpistica, al terrorismo, alla P2. In questo quadro la nostra partecipazione è stata partecipe, assieme a tutte le forze democratiche, per impedire che le conquiste della Resistenza, dell’antifascismo venissero cancellate, e continua.
Nella nostra regione abbiamo dato vita, nel mese di giugno, ad una forte organizzazione unitaria tra le associazioni della Resistenza, dell’antifascismo e gli istituti di storia. E’ stato creato il Forum permanente tra le organizzazioni di questo tipo: Resistenza, antifascismo e istituti delle due sponde dell’Adriatico e dello Jonio. Avremo la prima riunione nel mese di novembre, probabilmente a Pescara. Siamo stati invitati, a Corfù, a tre giornate di manifestazioni come Forum delle organizzazioni dell’antifascismo e della Resistenza. Quindi vogliamo che questo discorso dell’unità antifascista, della Resistenza continui a vivere. E’ importante che ci siano dentro le istituzioni e le forze democratiche, però è centrale la presenza di questo nerbo fondamentale della rinascita, del secondo Risorgimento del nostro paese.
Ecco perché in tutte queste occasioni noi siamo presenti, partecipiamo. Avremmo voluto che fossero stati invitati anche i presidenti e gli organizzatori dell’Anpi della provincia di Pesaro, cosa che non è avvenuta, purtroppo. Comunque è importante che la nostra associazione venga sentita come una forza determinante per andare avanti nella difesa della Costituzione repubblicana, nata dalla lotta antifascista e dalla Resistenza.

PRESIDENTE. Era previsto l’intervento di Roberto Rabini, dell’Associazione Partigiani Cristiani. Purtroppo non è potuto essere con noi.
Prima di passare al contributo filmato da “Una mattina mi son svegliata... — Donne e resistenza nella provincia di Pesaro e Urbino”, do lettura di uno dei messaggi che ci sono stati inviati.
Quello che leggo è stato inviato al sindaco di Cantiano Martino Panico: “Carissimo Martino, per motivi indipendenti dalla mia volontà non mi è possibile essere presente alla bella manifestazione per la chiusura delle celebrazioni del 60° Anniversario della Liberazione. Dispiaciuto, sono vicino a tutti voi nel ricordo di tanti compagni partigiani scomparsi, dalla Bei a Luchetta, da Mario a Vianello, da Volpini a Isotti e Marchegiani e agli indimenticabili eroi Cordelli, Tumiati, Giannetto Dini ed altri che hanno dato la loro vita per la libertà d’Italia. Li ricordo tutti con affettuosa commozione quali valorosi combattenti sui monti che sovrastano la nostra Cantiano. A te e a tutti i presenti buon lavoro e un saluto molto cordiale. Angelo Ceripa”.
E’ ora il momento del contributo filmato.

(Viene trasmesso il filmato da:
“Una mattina mi son svegliata...
— Donne e resistenza nella provincia
di Pesaro e Urbino”

PRESIDENTE. Prima di riprendere i nostri lavori che prevedono alcuni interventi programmati, voglio dare lettura di un altro messaggio che ci è giunto questa mattina da Gaetano Tumiati, il fratello della Medaglia d’Oro Francesco Tumiati fucilato nel 1944 a Cantiano assieme a due compagni slavi. Gaetano Tumiati è corrispondente de L’Avanti, vicedirettore di Panorama, scrittore, vincitore del Premio Campiello: “Caro presidente, nel giorno in cui il Consiglio regionale si riunisce a Cantiano per celebrare il 60° Anniversario della Liberazione mi sento spiritualmente e quasi fisicamente con voi. Sono sempre stato affascinato dalle bellezze naturali e artistiche delle Marche e dall’alta, umanissima civiltà delle sue genti, ma questo legame con la vostra regione ha assunto per me un valore quasi religioso dal giorno in cui le montagne di Cantiano videro la lotta e il sacrificio di tanti partigiani, tra cui mio fratello Francesco caduto a 23 anni sotto il piombo dei fascisti, Medaglia d’Oro della Resistenza. In questo stato d’animo commosso mi sento fraternamente tra voi emiliano, ferrarese, ma anche marchigiano e cantianese e dunque italiano, nella ferma determinazione di continuare a perseguire gli ideali per cui caddero mio fratello Francesco e i suoi compagni di lotta. Gaetano Tumiati”.
Ha ora la parola Massimo Papini, direttore dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche che ci farà una relazione su “L’8 settembre nelle Marche”.

Massimo PAPINI, Direttore dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche. Rispetto al bel filmato che abbiamo visto faccio un passo indietro su una pagina meno esaltante rispetto a quella della Liberazione in quanto il mio tema è “L’8 settembre nelle Marche”.
Tutti voi sapete cosa ha rappresentato l'8 settembre per l'Italia. Lo sfascio dello Stato, la fuga del re, lo sbandamento dell'esercito, espresso magistralmente da Alberto Sordi nel film "Tutti a casa", l'occupazione tedesca del nostro paese, l'inizio delle deportazioni, più di seicentomila soldati italiani internati in Germania, e così via. Insomma un paese allo sbando con una classe dirigente militare e statale, come ha notato Elena Aga Rossi, per lo più incapace, dopo vent'anni di fascismo, e proprio come conseguenza della intrinseca fragilità di un regime totalitario, di assumersi delle responsabilità e di prendere delle decisioni all'altezza della situazione.
La storiografia sull'8 settembre è stata caratterizzata in questi ultimi anni dal tormentone “morte della patria sì, morte della patria no”. Ormai quasi tutti gli storici, anche sotto le opportune pressioni del Presidente della Repubblica che su questo tema è tornato più volte, sono ormai concordi che con l'8 settembre muore la patria fascista, ma vengono poste le premesse per la rinascita della patria, la patria democratica, quella che sarà sancita dalla Carta costituzionale e dalla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946.
Su questo penso di non dovermi soffermare oltre, considerandolo ormai patrimonio comune di tutti i democratici. Utilizzerò invece i pochi minuti che ho a disposizione per concentrarmi sul caso marchigiano e sull'importanza e sull'originalità dell'esperienza dell'8 settembre nella nostra regione.
Proprio due anni fa si è tenuto un convegno nella sede della Regione sull'8 settembre nelle Marche, organizzato dall'istituto che rappresento, i cui atti sono usciti presso Il Lavoro Editoriale. Nell'occasione sono emerse alcune questioni storiografiche alquanto interessanti, in parte già presenti nella copertina del libro, in cui campeggia una foto di soldati che fraternizzano con la popolazione e che sorridono al fotografo. Non dà l'idea della morte della patria, dà piuttosto l'idea della unità della patria e del serpeggiare di una speranza di pace, anche se ancora, tragicamente, molto al di là dall'esaudirsi. Ma vediamo meglio le novità storiografiche. Vedo di riassumerle in estrema sintesi.
L'8 settembre del 1943, per quanto colga tutti di sorpresa, si pone in continuità con i 45 giorni che prendono il via dall'ordine del giorno del Gran Consiglio del 25 luglio, che dimissiona Mussolini. Le decisioni di Badoglio di porre fine alla guerra, la resa e l'armistizio, sono già implicite nella caduta di Mussolini il 25 luglio e ne sono la diretta conseguenza.
Molti testimoni ci hanno raccontato gli effetti di quella calda serata estiva nelle Marche. Per tutti Davide Lajolo che allora ricopriva la carica di vice federale ad Ancona e che nel libro "Il voltagabbana" ha descritto nei particolari l'effetto su di lui, sui fascisti e sulla popolazione di quella serata eccezionale. Ma le relazioni dei questori ci danno un quadro analogo in tutta la regione, e cioè di crisi terminale del regime.
Ciò che qui ci interessa, però, è che i 45 giorni vedono da un lato la rinascita, alla luce del sole e non più nella clandestinità, dei partiti democratici e dall'altra - ecco la novità che mi preme sottolineare - il manifestarsi del consenso popolare alla monarchia e del suo consolidarsi come potere legittimo e unanimemente riconosciuto.
Occorre quindi sfatare la leggenda alimentata da certa memorialistica, che vede già allora le premesse di una rivoluzione comunista. La gente scende in piazza ebbra di gioia per la fine del fascismo e inneggia al re; non vi sono le bandiere rosse, se non sporadiche; nelle strade vi sono quelle tricolori con lo stemma sabaudo. E questo, vedremo, è importante, per sostenere, proprio sul piano formale, la legittimità dell'arresto di Mussolini e l'illegittimità della nascita della Repubblica Sociale Italiana. La monarchia, per quanto di lì a poco scriverà forse la pagina più buia della propria storia, è in quei giorni l'unica istituzione legittima e garante della esistenza dello stato e dell'unità della nazione.
Subito dopo l'8 settembre avviene ad Ancona, ma anche in altri centri della regione, come Ascoli Piceno, Urbino, come Pesaro, il cosiddetto “patto di pacificazione”. Sul Corriere Adriatico del 12 settembre 1943 appare un appello di alcuni gerarchi fascisti che chiedono la fine delle divisioni tra italiani e ordinano ai propri camerati di attenersi a queste disposizioni. Accanto vi è una nota redazionale di Oddo Marinelli, repubblicano storico e futuro capo del Cln delle Marche, che esalta questo documento e richiama fortemente gli italiani all'unità non solo in nome della patria comune, ma anche in nome di un secondo Risorgimento al quale stanno per essere chiamati.
Nella memorialistica del dopoguerra questo episodio è stato inteso come una debolezza degli antifascisti e come un tentativo, elaborato in ambienti massonici, di unire i moderati (come si direbbe oggi), o meglio, i ceti medi contro i comunisti considerati un comune nemico. Ma questa interpretazione, come ho avuto modo di sottolineare nel citato convegno, appare debole per almeno due motivi. Innanzitutto i comunisti non erano allora visti come un pericolo tale da unire fascismo e antifascismo. Erano considerati una piccola forza, come all'inizio degli anni venti, e per di più poco influente nel fronte antifascista, egemonizzato dai dirigenti dei partiti storici, cattolici, repubblicani e socialisti. Una forza si sarebbero dimostrati solo nella Resistenza.
In secondo luogo, la proposta del patto di pacificazione, almeno in primo momento non fu osteggiata dai comunisti, che la sottoscrissero, forse non avendo ancora le idee chiare su cosa sarebbe successo, ma, più probabilmente, in nome dell’unità, allora davvero sentita, del fronte antifascista.
L'obiettivo vero era per tutti quello di mantenere uniti gli italiani in un momento di grande confusione e di incertezza e, di fronte alla imminente occupazione tedesca, di impedire che i fascisti passassero dalla parte del nemico e, in prospettiva, di creare una transizione che proseguisse quella avviata nei 45 giorni, con la importante novità (anche se allora solo auspicata e sentita soprattutto dai repubblicani) della Repubblica al posto della monarchia.
La terza questione riguarda i fascisti e la grande opportunità che era stata data loro, proprio in una fase in cui l'antifascismo appariva ancora debole e piuttosto velleitario. Questi gerarchi che fecero il citato appello, durante i 45 giorni erano stati messi in prigione proprio mentre venivano liberati gli antifascisti. Ora, proprio a seguito dell'8 settembre, vennero fatti uscire e rimessi in libertà. Sarebbe interessante approfondire cosa pensassero davvero in quei giorni, quando ancora Mussolini era prigioniero sul Gran Sasso e la Rsi non era neppure immaginabile e soprattutto non era immaginabile che l'avrebbe guidata Mussolini. Anzi, proprio sulla rivista del nostro istituto, "Storia e problemi contemporanei", abbiamo recentemente pubblicato un saggio di Dianella Gagliani che dimostra come gli stessi tedeschi all'inizio non avessero puntato su Mussolini per la creazione di un governo italiano collaborazionista, ritenendo il fascismo ormai finito. Verità questa, tra l'altro, che rimette in discussione la tesi defeliciana del successivo "si" di Mussolini ai tedeschi come "sacrificio" per salvare l'Italia.
Quindi un'occasione che molti fascisti persero, lasciando cadere l'ipotesi moderata dell'antifascismo, basata sull'idea del secondo Risorgimento, che avrebbe continuato la riscossa di Vittorio Veneto e la leggenda del Piave, del fronte patriottico che finalmente avrebbe potuto unire tutti gli italiani, idea tanto cara ai repubblicani, ostili da sempre, come Marinelli, ai tedeschi, nemico storico dell'Italia. E qui, occorre dirlo, più che l'onore offeso della patria, da sempre ricordato dai reduci di Salò (giustificazione a mio avviso in buona parte rielaborata dopo la guerra), nella scelta di quei fascisti — nomi e cognomi marchigiani che possiamo fare — di far decadere il patto di pacificazione incisero di più altri fattori, quali il bisogno di ritornare in auge, di avere ancora la possibilità di un futuro, di riprendere da dove si era lasciato (come scrissero allora alcuni di essi), di non riconoscere dunque la sconfitta; oltre ad altri elementi importanti quali l'affinità ideologica con il nazismo e la fedeltà (io direi l'attaccamento fideistico) a Mussolini. Con punte di fanatismo, basti pensare all'odio esasperato verso il re e verso i traditori del 25 luglio, che arriverà persino a superare l'odio per i comunisti.
L'8 settembre dunque segna lo spartiacque tra la morte della patria fascista e la rinascita della patria, quella democratica, ma è bene sapere che accanto alla Resistenza che nasceva proprio in quei giorni a Porta San Paolo a Roma, sul Colle San Marco sopra Ascoli Piceno, fino alla lontana Cefalonia, che è appunto la resistenza armata, quella che avrebbe vinto con l'insurrezione del 25 aprile, l'8 settembre vi era ancora in nuce un'altra resistenza, quella moderata, che aveva provato a unire e a pacificare gli italiani, a indicare la via di una nuova patria sulla scia della tradizione risorgimentale, ben vista anche da buona parte della classi dirigenti e allora da parte del popolo, che non nutriva ancora sentimenti di odio esasperato e esacerbato verso i fascisti (si veda il caso del fascista senigalliese Nello Zazzarini che ha raccontato di aver girato indisturbato in quei giorni, pur conosciuto da tutti).
Quest'ultima resistenza, fallito il tentativo di unire gli italiani, si fonderà con la prima dandole proprio quel carattere di guerra per la libertà e per l'unità d'Italia, ideali verso i quali i fascisti non solo si tennero fuori, ma che combatterono fino al dopoguerra, restando fuori non solo dalla costituzione democratica, ma anche dalla idea di patria che voleva unire e non dividere gli italiani.
E’ bene dunque ricordarlo, quando oggi si parla di pacificazione, che ai fascisti, proprio nelle Marche, ma non solo, fu offerta l'occasione della pacificazione, ma che essi l'accettarono solo per pochi giorni, per poi rinnegarla, in nome di una speranza di riscossa accanto a Mussolini e ai nazisti.
In conclusione un accenno a una cosa che mi sta a cuore e che sento prima di tutto come un dovere. Non sta a me parlare di resistenza, lo farà adesso Sergio, ma non posso fare a meno di menzionare tutti quelli che nelle Marche l'8 settembre lo vissero come una chiamata, un'occasione alla quale rispondere proprio per riscattare la patria umiliata, coloro che allora colsero il valore e il significato della parabola evangelica del seme che solo quando muore dà poi i frutti
Dovrei fare tantissimi nomi ma mi limito agli esponenti della concentrazione antifascista che non si fecero trovare impreparati l'8 settembre, e guidarono nei mesi successivi il Cln delle Marche. Voglio e devo menzionare i cattolici Plinio Canonici, Francesco Rabini e Vincenzo Acqua, i repubblicani Piero Pergoli e il già citato Oddo Marinelli, i socialisti Alessandro Bocconi e Alessandro Di Mattia, i comunisti Egisto Cappellini, Luigi Ruggeri, Raffaele Maderloni, Mario Zingaretti, il liberale conte Dino Fiorenzi, ma soprattutto coloro che da subito comandarono la resistenza partigiana nella nostra regione, Gino Tommasi, morto a Mauthausen, Amato Tiraboschi e, successivamente, Alessandro Vaia,.
A tutti loro la nostra riconoscenza. Che non vengano mai dimenticati.

PRESIDENTE. Ha la parola Sergio Bugiardini dell’università di Urbino, che ci presenterà la sua relazione su “La Resistenza nelle Marche”.

Sergio BUGIARDINI, Università di Urbino. Quando uno studioso affronta argomenti come l’esperienza resistenziale, per i quali non esiste una memoria condivisa e un comune sentire, sa bene, in genere, che aumenta il rischio di essere accusato di parzialità, specie poi in periodi nei quali imperversa il cosiddetto uso pubblico della storia, per meglio intenderci la distorsione in polemiche strumentali del lavoro storiografico. Ma è anche pacifico che la storiografia è immancabilmente esercizio critico e che la concezione, diciamo pure di matrice positivista di un passato raccontabile a prescindere da interpretazioni e giudizi, è quanto meno fuorviante, se non altro perché porterebbe a produrre solo tavole cronologiche, almanacchi o calendari.
Dico queste cose in premessa, tutte assai scontate, perché oggi, per limiti di tempo a disposizione e non per esimermi da un eventuale confronto di ordine ovviamente interpretativo, non potrà affrontare molte delle questioni storiografiche ancora aperte, né soffermarmi con compiutezza su particolari nodi analitici.
Non indugerò nemmeno su questioni più generali, quali ad esempio il significato, la portata storica, il valore morale, civile e politico della Resistenza. D’altronde non credo, in tutta franchezza, che ci sia molto da discutere sulle differenze etiche e morali esistenti tra chi contribuiva a riempire i treni per Auschwitz e chi quei treni invece non voleva farli più partire. Né credo, di converso, che tutta una letteratura resistenziale di ispirazione evidentemente agiografica e ben poco attenta ai criteri e agli strumenti della ricerca scientifica — letteratura che si è prodotta in passato ma che ogni tanto riappare — abbia realmente contribuito alla piena comprensione del fenomeno resistenziale o a rafforzare e divulgare i valori della Resistenza.
Detto questo, quando si analizzano i caratteri specifici della esperienza resistenziale marchigiana il primo dato che emerge è senz’altro la brevità temporale del fenomeno. Almeno formalmente le strutture militari e amministrative tedesche e repubblichine mantengono il controllo dell’intero territorio regionale marchigiano solo dal settembre del 1943 agli inizi dell’estate del 1944, per poi perderlo gradualmente, come noto, con l’avanzata delle truppe alleate. Questo arco di tempo di appena 10 mesi è evidentemente fin troppo breve per permettere alla Resistenza locale, sia di strutturarsi su solide basi operative e militari, sia per radicarsi e diventare un fenomeno di più largo seguito. A ciò va inoltre aggiunto, quale ulteriore elemento di freno nello sviluppo di un consistente partigianato locale, un contesto regionale assai poco modernizzato, sostanzialmente incline al conformismo e che ha visto in precedenza larghi strati della popolazione urbana e rurale aderire, sia pure in forme diverse e con intensità variabile, al fascismo, nonché l’antifascismo scomparire quasi del tutto sotto i colpi della repressione del regime.
All’indomani dell’8 settembre la percezione della relativa vicinanza degli alleati contribuisce notevolmente ad originare un diffuso attendismo riscontrabile in ogni segmento sociale. Non è perciò un caso che nelle marche, a differenza di altre realtà regionali sottoposte pi a lungo al governo nazifascista, l’impegno resistenziale non venga a caratterizzarsi né come fondamentale momento formativo di gran parte del personale politico e delle classi dirigenti locali post-fasciste, né come uno tra i più decisivi momenti di rottura nell’incedere piuttosto monotono della storia regionale. Cionondimeno la Resistenza marchigiana è ugualmente capace di dar vita a importanti episodi di lotta politica e militare. Lo dimostra, se non altro, il grande sforzo sviluppato dai nazifascisti per reprimere l’attività partigiana nella regione, sforzo che al suo apice, cioè nella primavera del 1944 vede impegnati in operazioni di rastrellamento e di controguerriglia ben 7.000 soldati tedeschi e circa 3.000 militi repubblichini. Lo dimostra ancor più il forte tributo di sangue pagato all’occupazione nazifascista che ammonterebbe — ma le stime sono piuttosto vecchie — a 1.200 vittime complessive tra civili e partigiani passati per le armi o caduti in combattimento.
Se l’ambiente sociale dunque non si presenta come il contesto ideale per un rapido attecchimento del movimento resistenziale, l’ambiente geografico invece è assai più favorevole. Le Marche sono infatti all’epoca attraversate da una scarsa rete viaria orizzontale che preclude rapidi spostamenti di truppe nell’entroterra, avvantaggiando non poco la sicurezza delle bande partigiane e la loro capacità difensiva. Inoltre la polverizzazione dei poderi agricoli, con la presenza di migliaia di abitazioni contadine sparse sul territorio e una notevole dispersione degli insediamenti, tale che circa due terzi della popolazione marchigiana vive in case isolate o in paesi di poche centinaia di anime, garantiscono ai partigiani una discreta rete di rifugi e una relativa possibilità di sostentamento. Di contro proprio la dispersione abitativa impedisce alle autorità della Rsi di mantenere, se non con rischi elevati, dei presidi stabili in gran parte delle località dell’entroterra e perciò di controllare efficacemente ed effettivamente il territorio.
Inoltre il nuovo fascismo è incapace di raccogliere adesioni consistenti e di strutturare legami solidi con la società marchigiana e per giunta soffre la concorrenza dell’alleato tedesco, che persegue, come obiettivi principali, lo sfruttamento delle risorse agricole locali e il reclutamento di manodopera da utilizzare nello sforzo bellico. Ovviamente entrambi gli obiettivi non possono che incontrare l’ostilità della popolazione rurale il cui sostegno alle formazioni partigiane — i militari alleati fuggiti dai campi di prigionia e i renitenti ai bandi di leva repubblichini — risulta essere uno dei connotati maggiormente distintivi l’intera esperienza resistenziale marchigiana.
Altro tratto peculiare è senza dubbio la composizione politica delle bande che cambia da zona a zona. Nel nord delle Marche, dove già nel primo dopoguerra si è sviluppato un forte movimento operaio e socialista, le formazioni si caratterizzano infatti per una connotazione in gran parte comunista, tuttavia man mano che si scende a sud, quasi a conferma di una tradizionale dicotomia politica della regione, la connotazione ideologica di sinistra diviene meno marcata e le bande assumono come collante interno un generico patriottismo che in realtà è spesso influenzato dalle tenenze monarchiche degli ufficiali del regio esercito che le guida.
Del resto nel Piceno e nel Maceratese sono proprio i militari a svolgere un ruolo centrale nella costituzione e nella conduzione delle prime bande partigiane.
Il fenomeno più diffuso rimane comunque quello delle bande a composizione mista nelle quali convivono elementi eterogenei che hanno scelto la via della montagna per motivazioni e per scopi differenti e talvolta anche antitetici. Un tratto comportamentale accomuna inoltre gran parte delle formazioni partigiane, ossia la loro tendenza ad agire autonomamente sia le une dalle altre ma anche nei confronti dei Cln locali.
I motivi che originano una tale attitudine sono molteplici ma anche piuttosto scontati: divergenze, sospetti, competizioni, manifeste o latenti, caratterizzano, ad esempio, i rapporti tra le formazioni di sinistra e le bande cosiddette apolitiche, nelle quali prevalgono spesso inclinazioni badogliane. La gestione dei collegamenti con gli alleati e l’accesso ai rifornimenti, talvolta condizionato da evidenti criteri politici, rappresentano ulteriori motivi di tensione che non facilitano certo la collaborazione tra le diverse formazioni.
Sul piano delle relazioni tra le bande e il Cln c’è invece da considerare l’atteggiamento attendista che i comitati locali e in particolar quello regionale, in genere manifestano durante la loro fase formativa, un atteggiamento che addirittura spinge questi organismi a sconsigliare in un primo momento la costituzione di bande in montagna e a caldeggiare, invece, la reazione di piccole cellule di sabotatori in ambiente urbano.
I Cln poi, vivono problemi di localismo e di legittimazione reciproca, tanto che l’organismo regionale è sostanzialmente incapace di imporsi come tale su quelli periferici. Al loro interno inoltre si lamentano tensioni politiche, specie tra gli azionisti e i comunisti, ossia tra le forze più attive nella lotta armata e le più attente a perseguire obiettivi di egemonia.
In un contesto del genere non stupisce dunque il fallimento dei tentativi promossi da più parti, a partire dalla primavera del 1944, allo scopo di cerare per l’intero movimento resistenziale marchigiano un’unica struttura direttiva.
Nonostante questi e altri limiti, la Resistenza locale, tuttavia, è in grado di dimostrarsi piuttosto aggressiva. Complessivamente le bande riescono a compiere, in fatti, circa 900 azioni: 400 si registrano nei mesi di giugno e luglio del 1944, quando si fa più forte il sostegno all’avanzata alleata, mentre appena un centinaio nei primi quattro mesi dell’occupazione nazifascista, quando il partigianato è ancora in fase organizzativa e deve far fronte a problemi di sopravvivenza e di inesperienza operativa.
Questa prima fase è caratterizzata dalla formazione di bande per lo più di tipo bovesano, ossia costituite in maggioranza da militari sbandati e da civili che prendono la via della montagna per non rispondere ai bandi di reclutamento e per attendere al sicuro l’arrivo, che si crede erroneamente prossimo, degli alleati. L’esistenza di tali gruppi provoca i primi scontri con i tedeschi che fra l’ottobre e il novembre del 1943 danno vita a vari rastrellamenti e, purtroppo, alle prime rappresaglie contro la popolazione civile. La reazione tedesca innesca allora un forte dibattito interno al Cln regionale sulla strategia da seguire, ma innesca anche una accentuazione degli sforzi organizzativi delle bande e una netta distinzione tra gli elementi che sono realmente intenzionati a combattere e i cosiddetti “attendisti di montagna”, la gran parte dei quali lascia le formazioni e si dà alla macchia senza più contribuire alla lotta partigiana.
Superato a fatica l’inverno, la Resistenza marchigiana è costretta a subire, a primavera, una nuova ondata di rastrellamenti, operata questa volta su vasta scala. Tra marzo e aprile infatti, si registrano numerosi combattimenti che durano anche più giorni e che in genere vedono impegnate su posizioni difensive le bande impossibilitate a sganciarsi. In questo periodo gli eccidi tedeschi ai danni della popolazione civile non si contano, tanto sono frequenti.
Comunque l’attività prosegue, anzi tra l’aprile e il giugno si intensifica vistosamente, assumendo una netta connotazione offensiva. Da giugno poi le Marche cominciano ad essere liberate dagli alleati che a Balzi occupano prima il Piceno, superano le linee difensive sul Chienti a sud di Ancona e puntano verso la linea gotica.
L’approssimarsi del fronte induce i tedeschi in ritirata a ulteriori azioni repressive per mantenere sicure le linee di comunicazione. Aumentano quindi i rastrellamenti e con essi le fucilazioni e le rappresagli indiscriminate. Per i civili questo è forse il momento più duro dell’occupazione nazifascista, pur se sporadicamente cominciano a registrarsi anche episodi di giustizia sommaria da parte dei resistenti contro collaborazionisti o presunti tali. Gli attacchi ai presidi dell’interno e la liberazione di diversi centri urbani prima dell’arrivo degli alleati caratterizzano inoltre questo scorcio di impegno resistenziale. Diventa infine sistematica l’attività di sabotaggio nelle zone antistanti la linea gotica, dove a fianco delle truppe alleate in azione di avanguardia o di pattugliamento, si compiono, agli inizi di settembre, gli ultimi sforzi del partigianato in terra marchigiana.
La completa liberazione del territorio regionale non rappresenta tuttavia la definitiva conclusione della lotta dei resistenti marchigiani al nazifascismo. Come ha ricordato Ferretti sono ben 638 i volontari marchigiani che si arruolano nel Cil, pagando un ulteriore tributo di 32 caduti.
Quasi a corrispondere l’impegno dei circa 700 combattenti stranieri presenti nelle formazioni partigiane della regione, altri 800 marchigiani sono attivi nelle file della resistenza jugoslava, in quella greca e albanese, nel Magui francese: 107 di loro non rivedranno mai più le Marche.

PRESIDENTE. Ha ora la parola Andrea Bianchini, direttore della Biblioteca Archivio Vittorio Bobbato, che parlerà sul tema “I crimini nazifascisti nella provincia di Pesaro e Urbino”.

Andrea BIANCHINI, Direttore della Biblioteca Archivio Vittorio Bobbato. Se da una parte è certo che l'entità numerica degli episodi di stragi ed eccidi nella provincia di Pesaro e Urbino non è paragonabile, per numero di vittime, a quella di ben più sfortunati territori italiani, anche prossimi a questo, quale ad esempio quello toscano, è comunque vero che analizzare scientificamente lo stillicidio di violenze, omicidi, crimini perpetrati da soldati tedeschi e fascisti, su scala provinciale, in quel breve periodo che va dal settembre 1943 al settembre successivo, significa addentrarsi in un universo umano, militare, politico in larga parte inesplorato di cui sono giunte a noi, solo schegge vaghe e confuse.
Riguardo a questi crimini mancava, infatti, ancora a livello provinciale, a circa sessant'anni di distanza, non solo una ricerca complessiva e approfondita ma anche solo un vero e proprio censimento.
In mancanza di analisi storiografiche complessive, quelle storie sono cosi rimaste, per lunghi decenni, quasi esclusivo e doloroso appannaggio della semplice memoria di comunità, molto spesso ridottissime e collocate in territori riposti, sulla quale era prevalsa, in diversi casi, una spessa coltre di rimozione. Il vuoto di verità che tutto ciò si lasciò alle spalle ha costituito la base per il perpetuarsi negli anni di memorie divise, nella indistinzione delle responsabilità o più complessivamente nella rassegnazione e nell'oblio.
Di fronte a una tale situazione, sono stati recentemente alcuni soggetti e istituzioni locali a comprendere la necessità di rendere giustizia a quelle storie e a quei morti, offrendo alla comunità provinciale tutta, dei motivi di conoscenza e di riflessione più approfonditi e scientifici.
La biblioteca-archivio "Bobbato" e l'Istituto di storia contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino (ISCOP), da qualche anno avevano intensificato la loro attività di ricerca e su questa strada hanno trovato, in prossimità del 60° anniversario della Liberazione, la piena adesione delle amministrazioni locali ed in particolare di quella provinciale nella persona del suo presidente Palmiro Ucchielli e dell'assessore alle attività culturali Simonetta Romagna che colgo l'occasione per ringraziare.
La lacuna documentaria che restava da colmare, affrontata all'interno del progetto Sulle tracce della libertà (2004), riguardava elementi centrali della ricostruzione storiografica di quegli eventi: quali reparti ad esempio operarono a Fragheto (strage che causò il 7 aprile 1944 trenta morti civili tra cui sei bambini di cui uno di 40 giorni), quali nelle maggiori stragi in provincia? Qual era la catena di comando effettiva di controllo del territorio? Quale la posizione delle autorità fasciste di fronte a una dichiarata e sempre più esplicita guerra ai civili? Quale la rete informativa tedesca e fascista? Quali crimini sono stati compiuti da tedeschi e quali perpetrati da italiani?
Risposte a domande, quindi, di non poco conto e per nulla marginali, a cui qui non si potrà che brevemente accennare.
Le fonti documentarie, relative al regime fascista consultate in vari archivi italiani ci consentono oggi di comprendere meglio sia la reale percezione delle dinamiche e realtà territoriali, sia l'effettiva capacità di azione che le autorità fasciste avevano in quel determinato e drammatico frangente. Stanno anche permettendo di meglio comprendere l'atteggiamento del fascismo locale e dei vari attori che vi agirono, rispetto a un uso così indifferenziato, intensivo e generalizzato della violenza sui civili, quale metodo e opzione politica di controllo del territorio.
Se da una parte in passato era emersa l'inefficienza complessiva degli organi della Repubblica Sociale, dall'altra, analizzando l'operato sul campo delle forze militari fasciste, preposte dall'occupante tedesco all'azione di contrasto del ribellismo, appare evidente come nei confronti dell'uso della violenza non vi sia stato da parte di questi reparti fascisti, in concreto, un sostanziale scostamento ideologico rispetto ai metodi utilizzati dai nazisti; anzi in vari episodi sono proprio i militi fascisti ad agire in autonomia e con risoluta violenza, a volte anche contro il diverso parere dell'occupante.
Ciò vale in particolare per la componente militare della RSI, impegnata nella lotta di repressione interna. L'immagine che ne esce è ben più problematica ed è opposta rispetto a quella proposta da quanti vorrebbero attribuire al governo di Salò un ruolo mediatore e moderatore nei confronti dei tedeschi, nel tentativo di evitare una sorta di polonizzazione del territorio. Infatti, praticamente tutti i reparti militari fascisti impegnati sul territorio provinciale nel periodo esaminato, fanno un uso indifferenziato, "purificatore" e politico della violenza (i reparti della "Venezia Giulia", della Legione "Tagliamento", delle SS italiane, che tra l’altro oggi sappiamo essere i veri uccisori del comandante “Francino”, cioè Francesco Tumiati). Se la guardia nazionale repubblicana si distingue in parte da questi reparti per un numero minore di casi, certo però non fa eccezione, non solo nell'uso della violenza ma soprattutto nella sua accettazione, evocazione e invocazione. Appare infatti altrettanto chiaro dalle carte esaminate che il non perpetrarsi con maggiori entità numeriche e maggiore estensione geografica degli episodi di stragi, in vari casi, fu determinato soprattutto dalla cronica scarsità di mezzi e risorse che spesso consigliava di non alzare il livello dello scontro oltre certi limiti, per timore di rappresaglie sui propri presidi spesso male armati e spesso ridotti all'impotenza di fronte all'attivismo delle formazioni partigiane.
Se si osservano i vari reparti militari fascisti che operarono in provincia si evince che un uso spregiudicato e arbitrario della violenza è infatti attribuibile circostanziatamente a tutti i reparti che operarono sul territorio. Non è, ad esempio, infrequente imbattersi nella esecuzione di fucilazioni sommarie, attuate da fascisti, per le quali i tedeschi, ovviamente non per motivi umanitari, sarebbero stati contrari. Per quanto riguarda ad esempio i militi della "Venezia Giulia", è significativo l'episodio del ponte Otto Martiri di Casteldelci dell'8 aprile '44 dove i militi, il giorno dopo la strage di Fragheto pretesero dai tedeschi otto giovani che stavano per essere deportati perché rastrellati, fucilandoli senza identificazione. Tra loro anche un ragazzo invalido, Alvaro Bragagni, spesso citato come il ragazzo dal busto di gesso, proprio a motivo della sua infermità che lo costringeva a portare tale ausilio ortopedico (assicuro che il resoconto dei testimoni oculari è veramente straziante).
Anche la documentazione emersa relativa alla legione "Tagliamento" e significativa. Tale formazione lasciò il vercellese, in cui era dislocata, il 13 giugno 1944 e restò in provincia fino al 5 agosto dello stesso anno. Qui venne impiegata in operazioni di antiguerriglia e salvaguardia del celere prosieguo dei lavori di allestimento della Linea Gotica. Fu più che sufficiente il mese e mezzo circa trascorso nel nostro territorio per lasciarsi alle spalle una terribile scia di sangue e violenza. In meno di sessanta giorni di permanenza in provincia, la legione "Tagliamento" fucilò, in larga parte in forma sommaria e arbitraria, spesso dopo sevizie o stupro, almeno quarantacinque persone.
La stessa organizzazione interna e il modo in cui venivano gestiti dal suo comandante i rapporti personali tra i soldati della legione, conducevano ed invitavano i sottoposti ad assumere comportamenti criminali così come ben evidenzia, l'incartamento processuale relativo al procedimento di Milano del 1952, giunto a noi perché contenuto oggi nel fascicolo ex “armadio della vergogna” relativo ad Angela Lazzarini, giovane ragazza di Macerata Feltria, seviziata, stuprata e uccisa perché aveva offerto abiti civili ad un renitente.
A titolo esemplificativo si può, ancora ad esempio, segnalare il caso dell'omicidio di Virginia Longhi, giovane ragazza di Pennabilli, che verrà fucilata per futili motivi da militi della "Camilluccia" inquadrati nella legione Tagliamento, il 4 agosto 1944. Anche in questo caso l'esecuzione avvenne malgrado il medico tedesco di piazza a Pennabilli si fosse reso disponibile, per salvarla, a rilasciare ai familiari un certificato in cui si attestava la non piena capacità di intendere e di volere della giovane.
Altro caso esemplificativo può essere la strage di Tavullia (all'epoca Tomba, comune dell'entroterra pesarese oggi noto perché patria di Valentino Rossi), dove il giorno 30 giugno 1944 vennero fucilate 12 persone ad opera sempre della Tagliamento. Il comandante fascista quando si trovò tra le mani sette disertori fuggiti dalla organizzazione Todt, non ebbe dubbi se seguire gli ordini del comandante delle SS Hildebrandt, che propendeva per la fucilazione o addivenire alle esigenze di manodopera manifestate dalla Wermacht che insisteva invece per la deportazione dei sette catturati in quanto giovani sani e abili al lavoro. I militi della "Tagliamento", nel fucilare i sette, aggiunsero a questi anche altri giovani arrestati del luogo, tra cui un carabiniere che si trovava lì momentaneamente, non perché renitente ma perché in regolare convalescenza. A nulla valsero i tentativi di intercessione.
Se questo è quanto emerge per i corpi militari, per quanto riguarda le varie articolazioni del regime, emerge con rilevanza la grande frammentazione dei poteri, proporzionale alla debolezza quando non mancanza di un'effettiva autorità politica, sia a livello provinciale che nazionale.
Ciò che emerge è innanzitutto l'impossibilità di un giudizio indifferenziato e uniforme sul complesso di poteri e persone che compongono il regime in quel periodo. La RSI è caratterizzata da centri di potere differenti, che si muovono spesso in forme tra loro contraddittorie, con rapporti tra loro spesso avulsi dalla comune logica di comando espressa dagli organigrammi ufficiali e con contrasti interni spesso molto forti. Innanzitutto proprio lo studio delle stragi e degli eccidi rende evidente l'asimmetria nell'effettivo esercizio del potere, tra chi aveva stretti e condivisi rapporti con i comandi tedeschi e l'autorità ufficiale fascista, spesso emarginata da un concreto controllo sul campo. Anche lo studio dei vari soggetti in cui si articolava il potere e il controllo degli occupanti tedeschi, rimanda spesso a conflitti interni in un quadro che sembra più simile ad una policrazia di poteri nella quale si scomponevano i dettati centrali di Hitler, Kesserling e Himmler (e il caso della strage di Tavullia non ne è che una spia).
In campo fascista, posizione più complessa e articolata è quella che emerge dallo studio dell'apparato statale periferico, rappresentato soprattutto dalla Questura, dalla Prefettura e dall'Arma dei Carabinieri. Gli elementi documentari reperiti conducono a osservare come tali istituzioni in provincia, seppur coinvolte strettamente nella perversa logica della RSI e del suo apparato violento e discriminatorio, cerchino di svolgere un ruolo più autonomo e dialettico rispetto ai settori più violenti e criminali.
Il prefetto della provincia, Angelo Bracci, dopo alcuni reiterati episodi di violenza causati dal comando tedesco di Pesaro, ne chiede esplicitamente la sua rimozione (in particolare dopo la strage cosiddetta di Piazzale Innocenti di Pesaro, dove perirono dodici bambini). Altrettanto esplicita durezza la usò, per censurare comportamenti criminali e violenti di cui era stata protagonista la GNR in provincia. Salvo poi essere trasferito ad altra sede per motivi che non sono ancora noti.
Sempre l'autorità prefettizia nella sua relazione riservatissima al Ministero dell'Interno del 14 aprile 1944, sui fatti di Fragheto, tiene a precisare come la popolazione locale non fosse in alcun modo sostenitrice dei ribelli, apponendo affianco alla dettagliata descrizione anagrafica delle vittime - tra cui sono indicati n0 6 bambini tra mesi i e anni 6-, degli evidenti e marcati punti interrogativi a matita blu. Per un riscontro in tal senso, di ben diverso tenore sarà la relazione redatta sul medesimo episodio dalle stesse autorità della Prefettura di Forlì che genericamente riferisce: "In due giorni di combattimento si calcola che i ribelli abbiano avuto circa 300 morti", non facendo alcuna menzione e distinzione tra partigiani e vittime civili.
Un elemento interessante e innovativo, per la ricerca condotta su scala provinciale, è stata l'acquisizione dei fascicoli del cosiddetto “armadio della vergogna”, relativi ai reati commessi dalle truppe naziste e fasciste nella provincia di Pesaro e Urbino.
Quella documentazione è forse il simbolo di tutti gli ostacoli, le rimozioni giudiziarie ma anche collettive che hanno contraddistinto questo lunghissimo dopoguerra della memoria. I fascicoli riguardanti la provincia sono 70. Tra i vari reati rubricati, 38 fascicoli riguardano la violenza con omicidio e sono relativi a 103 persone uccise, per lo più civili.
L'acquisizione di una copia di questi fascicoli, condotta dalla Provincia di Pesaro e Urbino, è stata rilevante per aprire uno spaccato nuovo sul periodo dell'occupazione tedesca a ridosso del settore orientale della Linea Gotica.
Analizzando il complesso dei fascicoli, indubbiamente ad un primo impatto colpisce in qualche modo leggere queste denunce sporte nella immediatezza dei fatti, per lo più da comuni civili, spesso persone semplici e di estrazione contadina, presso le locali caserme dei carabinieri. Cittadini che, nel clima convulso e desideroso di giustizia dell'immediato dopoguerra, affidavano fiduciosi la propria denuncia ad una sorta di regolare e ordinario corso della giustizia. Le cose andarono come sappiamo ben diversamente e su questo sta oggi indagando un'opportuna commissione d'inchiesta parlamentare.
Al di là dell'esito del tardivo percorso giudiziario, questa documentazione andava necessariamente acquisita anche quale segno collettivo della volontà di superamento di tutte quelle più o meno inconfessabili motivazioni che spinsero ad un così lungo e tenace occultamento. A tutti gli effetti questa documentazione appartiene alla storia del territorio, rappresenta una dolorosa, e in alcuni passaggi terrificante eredità, che era giusto tornasse ad essere patrimonio della nostra memoria collettiva.
Se si considera, ad esempio, l'episodio di Fragheto la lettura della dichiarazione rilasciata al comandante della stazione dei carabinieri di Casteldelci da Novelli Bruno, il 22 novembre 1944, ci riporta improvvisamente alla realtà di quel giorno, al suo crudo e preciso svolgersi, alla mostruosità di quella tragedia. Così depone Bruno Novelli sopravvissuto: "i tedeschi obbligarono la moglie del sottoscritto ad uscire di casa insieme al figlio Novelli Giuseppe; di mesi 18; appena la moglie del sottoscritto, di anni 20, che aveva nelle braccia il piccolo, ebbe percorso circa 150 metri di strada, i tedeschi tirarono dei colpi di fucile, colpendo il piccolo e ferendo gravemente lei alle braccia, al seno, al viso ed alla gamba sinistra. Siccome il piccolo dava ancora segni di vita quando i tedeschi stavano per abbandonare la zona, uno di essi gli sparò un colpo di fucile alla testa facendo saltare il cervello in una siepe vicina. La madre, per non essere finita, finse di non dare alcun segno di vita, vedendo così coi propri occhi la misera fine del suo piccolo che si trovava a breve distanza da lei dove era caduto in seguito al ferimento di entrambi”.
Questa deposizione così esplicita sulle modalità dell'uccisione del proprio figlio di 18 mesi, oltre a rimandarci tutta la spaventosa crudezza del fatto, torna ad evidenziare nella sua dettagliata descrizione, una volontà omicida precisa e oculata nella sua esecuzione.
Particolare interesse, là dove sono state fino ad ora reperite, sono inoltre risultate le carte processuali e le fonti giudiziarie. Non spetta allo storico rifare i processi o sostituirsi tardivamente ai giudici e non crediamo alla storia quale supremo tribunale degli uomini. Certo è, che molti dei particolari, contenuti in quegli incartamenti, illuminano di senso tanti episodi, tanti comportamenti e permettono di meglio indagare le psicologie, le ideologie e le pratiche del nazifascismo, di entrare dentro le dinamiche della "banalità del male" di questi agenti, dentro la mentalità stessa dei carnefici.
Queste fonti permettono considerazioni sull'imbarbarimento dello scontro e sulla degenerazione morale di alcuni di questi uomini, nei quali alla quotidiana brutale consuetudine con l'uso della violenza in guerra, si sono accompagnati elementi ideologici e razzistici che portavano a non attribuire agli altri, civili o nemici, uno status di pari dignità umana. Questi particolari' rimandano a generazioni completamente sconvolte dalla guerra, in cui il portato esistenziale e psicologico deve fare i conti con una continua esposizione e prossimità alla violenza più cruda.
Un elemento esemplificativo, ad esempio, di semplici atteggiamenti ma estremamente significativi per comprendere quel clima ideologico, è quello relativo al fatto ricorrente che vede soldati fascisti vantarsi pubblicamente di aver partecipato ad azioni in cui si sono verificate stragi.
Il vantarsi e rallegrarsi di episodi di stragi, non è che uno degli elementi di contiguità con i perpetuatori che non significa ovviamente, dal punto di vista giuridico, di per sé la colpevolezza rispetto all'aver compiuto tali reati, ma certamente dice molto sul grado di condivisione morale e politica di quei fatti.
Più in sintesi queste fonti, così come quelle per altri versi relative alle persecuzioni razziali, sono la prova più diretta di una delle realtà da sempre rimosse del nostro paese e forse ancor più delle nostre comunità provinciali e cioè quella della piena, convinta e perseguita adesione, da parte di non marginali settori del fascismo, degli obiettivi e delle pratiche messe in atto dal nazismo. Tra alcuni giovani cresciuti interamente sotto il regime, per anni rimasti interamente dentro la logica e la pratica della violenza e della guerra, quello nazista incarnò un ideale esaltante e perseguibile, capace di entusiasmare e di condurre anche fino all'ultimo sacrificio della vita propria o di civili inermi.
In questa inestricabile alleanza, fino all'ultimo atto, tra fascismo repubblicano e nazismo, stanno per l'appunto due punti cardine, su cui si misura l'unità di intenti e di tenuta ideologica degli affiliati al regime di Salò, da una parte quello dell'uso indiscriminato della violenza anche sui civili, dall'altra quello della riaffermazione della superiorità razziale della stirpe ariana con l'esecuzione supina delle richieste tedesche in merito alla persecuzione degli ebrei.
Faccio una breve parentesi: va anche a merito della nostra provincia che di 139 ebrei censiti nel 1938, nessuno di quelli residenti verrà deportato nei campi come Auschwitz.
La ricerca si è inoltre spinta anche fuori dai confini nazionali, grazie al rapporto di ricerca con Carlo Gentile, uno dei massimi esperti in questo tipo di ricerche, già consulente dal 1997 delle autorità giudiziarie italiane e tedesche in procedimenti penali per crimini di guerra.
Il recupero delle fonti tedesche ed il loro studio invitano a numerose riflessioni.
Nel caso di Fragheto questa ricerca, sebbene tutt'oggi ancora in corso, ci ha già fornito delle importanti indicazioni, quale l'individuazione dei reparti tedeschi coinvolti nelle operazioni di rastrellamento a Fragheto. Ciò ha permesso di determinare con certezza che a commettere la strage non furono reparti della divisione Hermann Goering, a cui veniva attribuita fino ad ora.
Mi avvio a concludere con un episodio relativo a queste zone, che collega Cantiano, purtroppo, tragicamente a Fragheto.
Le ricerche in corso e la mole di documentazione recuperata e in via di acquisizione in ambito tedesco e fascista permettono inoltre di iniziare un percorso di studio comparato tra la documentazione fascista, quella tedesca e quella resistenziale.
L'analisi permette di smontare tanti luoghi comuni che si sono via via sedimentati sopra queste memorie. Le fonti militari spesso sono imprecise ma non tutte queste fonti militari sono però da considerarsi meri documenti di propaganda, innanzitutto perché se dimostrano forte inattendibilità sulle perdite avversarie sono invece piuttosto precise e meticolose nella determinazione delle proprie perdite. Inoltre costituiscono degli elementi conoscitivi straordinari anche per comprendere la tenuta psicologica degli schieramenti belligeranti, in quanto, in essi le considerazioni sul nemico sono non tanto realistiche, quanto pienamente rispondenti e sincere rispetto alla percezione che ne avevano in quel determinato frangente. Se si osserva un episodio quale quello della cosiddetta battaglia di Cantiano del 25 marzo 1944, uno scontro tra partigiani di alcuni distaccamenti della V Brigata Garibaldi Pesaro e reparti tedeschi e fascisti in azione di rastrellamento proprio nelle zone in cui oggi siamo riuniti, può essere significativo rilevare come la documentazione riservata fascista non fa che confermare ed enfatizzare la vittoria propagandata dai partigiani. Se le ricostruzioni successive della battaglia fatte per lo più dai partigiani, difficilmente sono rimaste immuni anche da comprensibili aspetti retorici e celebrativi dell'episodio, fino a far nascere a volte in alcuni stessi resistenti la sentita esigenza di riportare ad una maggiore sobrietà i resoconti, è invece interessante notare come ad esempio dal rapporto di un agente della polizia segreta tedesca questa sconfitta nazifascista, al di là del conteggio delle perdite, abbia costituito un elemento di reale e fortissima preoccupazione tra i fascisti, sancendo una inferiorità ovviamente più psicologica e tattica che di uomini e mezzi, che tra l'altro avrà riscontri tragici. Osservando quel documento segreto fascista gli episodi di Vilano di Cantiano e di Fragheto paiono infatti come legati. E' probabile che nella quantità numerica delle forze, nelle modalità d'azione e nella preparazione sul terreno, il successivo rastrellamento di aprile in Valmarecchia abbia costituito una sorta di banco di prova in provincia di non ripetizione degli errori del 25 marzo e di riacquisizione del controllo militare e psicologico del territorio. Il costo della riaffermazione di questa supremazia militare e politica sappiamo fu tragico ed elevatissimo per l'ignara popolazione di Fragheto.
Gli sforzi di una società civile, matura e democratica dovrebbero infatti essere rivolti nell'impegno di tutti perché tutta la documentazione che ancora può essere presente in archivi e istituzioni pubbliche o private possa essere finalmente conosciuta e consultata, da tutti, in una trasparenza delle fonti e delle memorie che possa giungere ad avanzamenti storiografici sempre più scientifici, documentati e precisi, perché queste storie divengano finalmente patrimonio culturale veramente comune della popolazione.
Solo in una storia seria e serena, capace di superare nelle fonti censure, oblii e soggettivismi si potranno riconoscere tutti o almeno tutte quelle persone che sono spinte da una comune esigenza di verità e giustizia.

PRESIDENTE. Per l’ultimo degli interventi programmati do la parola ora a Henryk Swiebocki, direttore del Museo Statale di Auschwitz e nel dargli la parola voglio ricordare che il direttore ha avuto il padre prigioniero politico, morto nel campo di Auschwitz.

Henryk SWIEBOCKI, Direttore del Museo Statale. Signor Presidente, signore e signori, cari amici, mi sento molto soddisfatto e onorato di poter partecipare a questa solennità. Sono riconoscente al Consiglio regionale delle Marche, all’Amministrazione regionale delle Marche, sono riconoscente al dott. Rossetti per l’invito ricevuto. Giustamente ha detto il presidente che mio padre è morto ad Auschwitz come membro della Resistenza polacca, cattolico. E’ riuscito a sopravvivere ad Auschwitz solo un mese e mezzo.
Il mio intervento, che non deve essere limitato entro un quarto d’ora, riguarda “Gli italiani nel campo di Auschwitz”.
Il giorno 8 settembre 1943 segnò una svolta molto importante nella storia d’Italia. Gli alleati, infatti, resero pubblico l'armistizio segreto stipulato precedentemente con il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo, dopo la caduta di Benito Mussolini. La Germania nazista, alla quale l’armistizio era stato, fino a quel momento, tenuto segreto, reagì immediatamente occupando l'Italia settentrionale e centrale. Il Meridione, invece, Sicilia compresa, si trovava già nelle mani degli alleati.
I tedeschi trattarono il territorio italiano come un paese occupato, seminando il terrore fra la popolazione e reprimendo spietatamente anche i minimi tentativi di opporre resistenza. In questo periodo ebbero inizio le deportazioni nei läger nazisti: Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, Flossenbürg, Mauthausen, Ravensbrück; furono tutti i campi di concentramento destinati agli Italiani deportati per motivi politici o razziali, se si trattava gli Italiani di origine ebraica.
Vi erano già stati, in verità, casi di Italiani deportati; ad esempio i partecipanti alla guerra civile in Spagna, difensori della Repubblica, o gli esiliati per motivi politici arrestati nella Francia occupata. Ma é in questo periodo che per gli italiani si spalancarono le porte di questi luoghi di pena e di morte. Secondo le stime degli esperti furono deportati circa 40.000 fra uomini, donne e bambini, di cui 30.000-32.000 per motivi politici. Secondo le ricerche, pubblicate nel 1991, la deportazione per motivi razziali riguardò almeno 8.566 ebrei provenienti dall'Italia e dai possedimenti italiani delle isole Egee del Dodecaneso. Un capitolo a parte, in questa tragica pagina di storia, è costituito dal läger in cui vennero reclusi centinaia di migliaia di soldati italiani. Alcuni di essi, dopo essere stati disarmati, vennero internati nei campi di concentramento (ad esempio Buchenwald), dove venivano trattati come prigionieri politici.
Fra i politici deportati si trovarono quelli del movimento di resistenza catturati nelle azioni di guerriglia ed anche scampati alle forche e ai plotoni di esecuzione; c'erano patrioti delle organizzazioni clandestine per la liberazione caduti nelle mani dei tedeschi e dei fascisti, ed, infine, tutti coloro che, anche senza diretta partecipazione alla lotta, furono considerati tali per aver prestato aiuto e soccorso nei combattimenti, ai feriti ed ai perseguitati (Giovanni Palatuci, vicequestore a Fiume). Un altro gruppo italiano importante che venne deportato é costituito dagli operai, dai tecnici e dai dirigenti sindacali e politici, arrestati per gli scioperi avvenuti in diverse fabbriche dell'Italia settentrionale nel marzo 1944.
La loro sorte nei campi era davvero tragica. I tedeschi li trattavano assai disumanamente chiamandoli “traditori" per il fatto che l’Italia si era separata dalla Germania e si era messa dalla parte degli alleati. Al tempo stesso, gli altri internati dei campi non accoglievano gli italiani con simpatia, perché li accomunavano al fascismo ed al regime fascista stesso. Per loro gli italiani erano sempre fascisti uniti ai tedeschi, colpevoli, perciò della guerra e di tante disgrazie. L'arrivo degli italiani ai campi diede occasione a gesti di inimicizia, che i tedeschi incoraggiavano. Uno dei sopravvissuti Giovanni Melodia racconta che, entrando a Dachau, il suo gruppo ebbe un'accoglienza umiliante: “... Stiamo andando verso l’altra estremità del piazzale quando incrociamo un gruppo di uomini cenciosi, magri, luridi, coperti di grotteschi indumenti da corte dei miracoli imbrattanti con strisce di vernice rossa. Rallentano al. nostro passaggio, ci guardano. Qualcuno grida, verso di noi: “Franzòsichen? Jugoslawen?” “No” risponde in mezzo a noi una voce, “Italia. Italiani”. Allora succede una cosa stupefacente. Gli straccioni si fermano come colpiti da una scarica elettrica, si piegano, raccolgono manciate di fango, si avventano contro di noi: “Italiener? Italiener?” Banditen? Faschisten? Badoglio?” Ci gettano addosso il fango, sputano nella nostra direzione: “Banditen! Banditen! Badoglio!”. Torme di accattoni sono sbucate, subito dopo la prima, da ogni parte, a piccoli drappelli o a plotoni inquadrati. E quelli che passano vicini ci additano, alzano i pugni: “Italiener? Banditen! Banditen!”. Ma perché? Che cosa abbiamo fatto? Due file davanti a me un uomo anziano, che procedeva a stento con le braccia appoggiate sulle spalle di due compagni, lasciato l’appoggio, scivola a terra singhiozzando" (Giovanni Melodia, La quarantena. Gli italiani nel Läger di Dachau. Milano 1971, pp. 35-36).
Fra i läger sopracitati vi fu il campo di Auschwitz nel quale si concluse, nel modo criminale ed assurdo il destino degli ebrei deportati dall’Italia. Il primo trasporto (1.023 persone) vi giunse il 23 ottobre 1943 ed era composto da ebrei arrestati durante la famosa retata di Roma del 16 ottobre 1943. Il carico comprendeva molti bambini, fra cui 244 nati dopo il 1930. A questo trasporto ne seguirono altri per tutto il 1943 Comprendevano ebrei di Bologna, Firenze, Siena, Verona, Milano e dintorni. L’11 dicembre 1943 arrivò un convoglio di circa 600 ebrei, catturati a Milano e Verona e di questo convoglio facevano parte due ebrei nati ad Ancona, Roberto e Cesare Costantini. Sono entrati nel campo come prigionieri e sono poi morti.
Va qui precisato che in realtà il 16 settembre 1943, dall'Italia, e precisamente da Merano, era stato deportato un gruppo di 35 ebrei nel campo di transito di Reichenau, in Austria. Dopo 6 mesi il gruppo, che aveva perso 4 persone morte a Reichenau, venne inviato al läger di Auschwitz. Un caso simile di deportazione degli Ebrei ad Auschwitz ebbe luogo il 21 novembre 1943 quando un gruppo di 328 persone - quasi sicuramente ebrei fuggiti dalla Francia - venne deportato da Borgo San Dalmazzo (Cuneo) al campo di transito di Drancy, nei pressi di Parigi. Qui furono divisi in 3 gruppi e aggiunti ai trasporti che a dicembre del 1943 e nel gennaio 1944 vennero fatti partire da Drancy con destinazione Auschwitz.
Nel 1944 vennero deportati gli ebrei italiani di altre regioni dell'Italia settentrionale e centrale. Ad Auschwitz giungevano soprattutto trasporti provenienti dal campo di transito di Fossoli di Carpi (Modena). Ai trasportati da Fossoli venivano aggiunti anche gruppi di ebrei di Torino, Padova, Verona, Milano. Quando gli alleati si avvicinarono alla Linea Gotica e la provincia di Modena si trovò nella zona delle operazioni militari, Fossoli di Carpi venne sostituito dal campo di Grìes, vicino a Bolzano. Proprio da qui proveniva l'ultimo trasporto italiano, circa 300 ebrei arrestati non solo per motivi razziali ma anche politici, giunto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944.
Nel 1944 nel läger di Auschwitz confluivano, oltre a quelli già citati, anche trasporti da Trieste, provenienti soprattutto dal campo-prigione di Risiera di San Sabba, situato nei sobborghi di Trieste .
Ad Auschwitz vennero internati anche ebrei italiani non residenti nella Penisola, come nel caso degli ebrei delle isole di Rodi e di Coo (del possedimento italiano del Dodecaneso), fatti giungere al Läger via Atene il 16 agosto 1944. Circa 100 ebrei italiani vennero poi trasportati ad Auschwitz dal già citato campo di transito di Drancy.
Al läger di Auschwitz vennero mandati anche italiani non ebrei. Si trattava di prigionieri politici, uomini e donne. Dalla cosiddetta zona di operazione del litorale adriatico (Operazionszone Adriatisches Küstenland), soprattutto dalle regioni di Trieste, Udine, Fiume, Pola, Gorizia, Bolzano furono nel periodo gennaio-ottobre 1944 deportate direttamente ad Auschwitz le donne. Tra di loro si trovavano anche le slave, per esempio le slovene con la cittadinanza italiana. Detenuti politici non ebrei venivano trasportati qui anche da altri campi di concentramento: Mauthausen, Buchenwald, Dachau, e persino da Majdanek (KL Lublin), quando questo campo venne evacuato. Il 3 dicembre 1944 è venuto dal campo Mauthausen un convoglio di 1120 uomini, tra cui vi erano 165 Italiani. Il 27 gennaio 1943, proveniente dalla Francia, giunse ad Auschwitz un trasporto di prigioniere politiche, fra le quali si trovava Vittoria Nenni, figlia del famoso socialista italiano Pietro. Vittoria Nenni fu registrata nel campo come detenuta politica francese (Vittoria Daubeuf nr 31635). Peri ad Auschwitz il 16 luglio 1943.
In totale ad Auschwitz nel periodo 1943-1944 vennero deportati circa 8.000 Italiani, nella stragrande maggioranza Ebrei. I politici, non ebrei, costituivano alcune centinaia di persone.
I trasporti di ebrei dall'Italia - così come avveniva del resto per quelli dì altri paesi - dopo l'arrivo al Läger venivano sottoposti a selezione, dopo la quale, in media circa il 70% dei nuovi arrivati veniva subito ucciso nelle camere a gas. I restanti, riconosciuti abili al lavoro, venivano internati nel campo. Naturalmente queste percentuali variavano da trasporto a trasporto. Per esempio, il primo carico, giunto il 23 ottobre 1943 da Roma, contava 1.023 persone, delle quali furono selezionati e destinati come detenuti per il campo 149 uomini e 47 donne. Le restanti 827 persone (l'80% circa) vennero immediatamente fatte morire nelle camere a gas. Un altro trasporto, proveniente da Milano e da Verona e giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944, contava 605 deportati. Dopo la selezione furono destinati al campo 97 uomini e 31 donne, mentre i restanti 477 (equivalenti al 79% del totale), vennero immediatamente mandati a morire nelle camere a gas. Di 611 ebrei giunti il 10 aprile, provenienti da Fossoli, Mantova, Verona, subito dopo la selezione vennero uccisi nelle camere a gas 377, e cioè il 60%.
I deportati che, durante la selezione, venivano considerati abili al lavoro venivano registrati e collocati nel campo. Essi venivano smistati in diverse baracche dei campi di Auschwitz I, Auschwitz Il, Birkenau, Auschwitz III, Monowitz ed in vari sottocampi. La sorte di questi prigionieri era segnata fin dall'inizio se si tiene conto che essi giungevano al läger già denutriti, sfiniti per il lungo viaggio in carri bestiame (dai 4 agli 8 giorni) e spesso malati. Essi venivano utilizzati per forme di lavoro coatto nel läger come pure negli stabilimenti industriali tedeschi. Lavoravano inoltre nell'industria chimica, nelle miniere di carbone e nelle fonderie. Il lavoro micidiale, le terribili condizioni di vita nel läger, la fame, il terrore, provocavano un alto tasso di mortalità. Non mancava il peso del fattore climatico; soprattutto l'inverno, particolarmente rigido specie per gente del sud.
Un altro ostacolo di non poco conto era l'impossibilità di comprendersi con gli altri prigionieri. Gli ebrei italiani, infatti, di solito non conoscevano ne l'yiddish ne il tedesco, ragion per cui non erano in grado di parlare con gli ebrei di altri paesi.
Le condizioni fisiche e psicologiche facevano si che la mortalità fra gli Italiani fosse molto alta. Un sopravvissuto ebreo, il prigioniero nr 174517, Primo Levi, scriveva dopo la guerra in un suo libro: "...Avevamo deciso di trovarci, noi Italiani, ogni domenica sera in un angolo del Läger, ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi" (Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Milano, 1979 p. 32).
Il movimento di resistenza polacca nel campo trasmetteva informazioni circa i cittadini italiani del campo di Auschwitz per mezzo di rapporti e messaggi clandestini che riusciva a far giungere al proprio commando nel paese occupato. Vi venivano menzionati i trasporti di ebrei dall'Italia ed anche il loro annientamento nelle camere a gas. Veniva inoltre trasmesso il numero degli ebrei italiani del läger in diversi periodi del 1944: un messaggio clandestino del 21 agosto parla di 1.100 uomini e 731 donne, un altro del 2 settembre di 1119 uomini, mentre un messaggio della metà di dicembre fornisce la cifra di 111 uomini. Un altro documento del movimento di resistenza interno al campo cita 43 italiani di una speciale categoria di prigionieri da "rieducare" deportati ad Auschwitz nel dicembre del 1943 e nei mesi di gennaio e febbraio del 1944 (Archivio del Museo Statale Auschwitz-Birkenau di Owiecim. "Materiali del movimento di resistenza del campo"- V 2 pp 115, 133a, V 3 j) 208a, V 4 p 290, V 7 pp 416, 420,451).
Un numero esiguo di cittadini italiani del Läger di Auschwitz riuscì a resistere fino al gennaio 1945. Una parte di essi il 18 gennaio 1945 insieme ad altri prigionieri, fu evacuata e costretta ad una marcia estenuante per raggiungere i campi situati all’interno del III Reich. Nel trasporto verso il läger di Mauthausen si trovò, fra gli altri, il tenore Emilio Jani, ebreo (detenuto n. 180046). A Mauthausen Emilio Jani giunse a vedere il giorno della liberazione.
I malati, incapaci di marciare, rimasero nel campo e il 27 gennaio 1945 furono, insieme ad altri prigionieri, liberati dai soldati sovietici. Circa 150 cittadini italiani liberati furono in seguito ricoverati nell'ospedale della Croce Rossa polacca, aperto subito dopo la liberazione all'interno dell'ex läger. Nonostante il soccorso medico prestato, entro il 17 luglio 1945 morirono altre 17 persone.
Fra i liberati vi erano Primo Levi e Luigi Ferri, quest'ultimo nato il 9 novembre 1932 a Milano e nell'estate del 1944 deportato da Trieste insieme alla propria nonna, ebrea, morta in una camera a gas del KL Auschwitz. Prima della guerra il padre di Luigi Ferri morì e durante la guerra Luigi e la mamma abitavano a Roma, ma la capitale era minacciata dai bombardamenti degli alleati, così la mamma di Luigi decise di spostarsi a nord, a Fiume dove abitava la suocera, ebrea, la nonna di Luigi. Dopo un periodo tutti e due si trasferirono a Trieste e poco dopo nell’appartamento della nonna apparvero i repubblichini, catturarono la nonna, dissero a Luigi “tu non sei ebreo, sei libero”, ma lui era così attaccato alla nonna e pregò di poter stare con lei. Finalmente i repubblichini dissero “va bene”, e tutti e due furono messi nella Risiera di San Sabba. Poi venne preparato un convoglio di ebrei, ma nella Risiera di San Sabba furono imprigionati anche tanti politici italiani. Questo convoglio, con Luigi e la nonna giunse ad Auschwitz il 3 giugno 1944. I nazisti non fecero la selezione, perché non era un grande convoglio, ma separarono gli uomini dalle donne. Il giorno dopo i nazisti scoprirono che Luigi stava con le donne, sempre con sua nonna. Naturalmente non poteva stare con le donne, quindi lo portarono a campo maschile di Birkenau, un campo enorme, di 175 ettari di superficie, con circa 90.000 persone registrate, più donne che uomini. Birkenau era una filiale di Auschwitz, era chiamato Auschwitz II. Quando Luigi abbandonò il campo delle donne, venne l’ordine per cui tutti gli arrivati dalla Risiera di San Sabba dovevano andare nella camera a gas. Venne dapprima presa la nonna, poi le altre donne e gli uomini. Quando Luigi giunse al campo maschile non trovò gli uomini del suo convoglio, gli amici con cui stava nella Risiera di San Sabba. Non aveva compiuto neanche 12 anni, essendo nato nel mese di novembre del 1932. I prigionieri del campo, con i vestiti a righe lo accolsero e lo curarono, poi avvenne una cosa terribile: i nazisti, accortisi che non era stato ucciso con gli altri, vennero per prenderlo ed entrarono nella baracca dove lui stava. Gli adulti, all’ultimo momento lo spostarono in un’altra baracca, cosicché non trovarono Luigi. Andarono in un’altra baracca e fu la stessa cosa, quindi lui girava, sempre protetto dai prigionieri. I tedeschi sapevano bene che c’era questo ragazzo, ma era introvabile. Questo gioco terribile è durato fino al 18 agosto, dal 3 giugno. Il 18 agosto venne un convoglio di ebrei dall’Italia, un gruppo di uomini adatti a lavorare nel campo e quando li stavano registrando gli adulti prigionieri fecero uscire Luigi dal nascondiglio e lo aggregarono ai prigionieri di quel convoglio, così fu registrato come se fosse arrivato il 18 agosto 1944. Liliana Picciotto Fargion, nel suo libro, guardando il suo numero scrisse che lui era arrivato il 18 agosto, invece era arrivato il 3 giugno. Era piccolo, ma c’erano pericoli incombenti, perché i nazisti ogni tanto facevano selezioni, scegliendo le persone più deboli, ma i prigionieri adulti riuscirono sempre a proteggerlo e nasconderlo, così che fu liberato il 27 gennaio 1945, poi negli anni ‘70 venne ad Auschwitz come visitatore. Abbiamo la foto che lo ritrae davanti al reticolato.
Vi ringrazio cordialmente.

PRESIDENTE. Ha ora la parola il consigliere regionale Guido Castelli.

Guido CASTELLI. Saluto i presenti, ringrazio il Presidente del Consiglio Minardi e tutte le autorità di questa ricorrenza alla quale non volevo mancare, anche se parlando con alcuni colleghi, qualcuno pensava, anche per ragioni di carattere politico “Viene Castelli?”. Castelli viene, ci mancherebbe. Ha il dovere e il piacere di venire. Ci tenevo anche a intervenire per parlare della mia storia, che credo possa essere utile come quella di tanti altri ragazzi nati nel 1965, quando gli echi di queste tragedie, di questi dolori che ci hanno raggelato si erano un poco spenti.
Sono quindi un figlio del secolo in cui si sono verificati quei lutti, perché avevo un padre che fece una scelta e un nonno che fece una scelta contraria. Mio padre, dopo l’8 settembre era renitente alla leva, si era dato alla macchia e preparava ad Offida la chiamata a raccolta degli azionisti, amico di Emilio Lussu, di Max Salvadori, per poi diventare azionista, quindi socialdemocratico. Quando ero bambino mi raccontava la sua storia. Ma avevo un nonno, però, che era stato repubblichino, internato a Coltano, nel campo di concentramento e mi raccontava anche lui la sua storia, senza odio nessuno dei due. Ma questi due ex nemici su una cosa erano concordi: quando il bambino manifestava anche un leggerissimo, impercettibile segno di entusiasmo verso quelle cose che apparivano epiche e leggendarie tutti e due alzavano le voce e dicevano “guai a te se anche per un secondo che siano periodi che comunque possano essere in qualche modo ricordati” per la gravità, per la tragicità, per la difficoltà di quella che fu una storia che lascia ancora senza parole.
Da consigliere regionale, da persona che ha militato a destra, che milita tuttora a destra, ho detto “io ci voglio essere a Cantiano, ci devo essere a Cantiano”, perché io sogno un’Italia in cui le cose che ho sentito raccontare siano patrimonio di tutti: che nessuno si senta ospite quando si parla di queste cose. Io sogno questo, ma non è sempre stato così e la classe politica ha una grande responsabilità da questo punto di vista, perché la classe politica deve vincere la tentazione di considerare di parte la Resistenza. La Resistenza è di tutti, con il suo patrimonio di eroismi, con la sua storia. Per questo, dicevo ai colleghi consiglieri, che anche se sono di Alleanza nazionale e sono stato missino, non mi sento ospite, io voglio essere qui, voglio sapere, voglio ricordare, voglio tributare anche da parte mia il mio omaggio, consapevole di un fatto: che niente deve far paura a una democrazia piena, matura e compiuta cui siamo arrivati nel 1945, inevitabilmente. Ecco perché oggi, per la stima che mi lega al Presidente Minardi e al Presidente Spacca ho pensato di fare loro un dono che non vuol essere assolutamente provocatorio, perché era una vecchia idea che avevo. Ho regalato loro il secondo libro di Pansa, quello che riguarda i morti dopo il 1945. Non devono far paura neanche quei parti. Non sono morti di parte o di qualcuno, quelli sono i morti di una fase gravissima, di questa storia del dopoguerra. E allora penso che questo sia lo spirito di cui una grande nazione ha bisogno per avere questa memoria condivisa, per far sì che sia assolutamente allontanata anche la benché minima tentazione di voler richiamare ciò che è antitesi di democrazia, libertà e fratellanza. Di questo sono convinto e credo che questo sia il compito che abbiamo tutti noi che facciamo politica. Siamo testimoni, dobbiamo esserlo.
Brecht disse una volta “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, io credo che ha perso una buona occasione per stare zitto, Bertolt Brecht. Abbiamo bisogno di eroi, e questi sono gli eroismi.
Ringrazio davvero chi oggi ha relazionato su questi argomenti, perché credo che ci aiuti a costruire una democrazia che, secondo quello che diceva un altro grande protagonista della lotta del 1945, Winston Churchill, ci consentirà di avere una democrazia piena. La democrazia piena è la democrazia in cui tutti la possono considerare come l’arte di contare le teste senza avere mai la voglia di romperle. Questa è la nostra Italia che vogliamo.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Massi.

Francesco MASSI GENTILONI SILVERI. Presidenti, autorità, colleghi, cari amici, qualche breve riflessione, accentuata dal fatto che i ragazzi sono andati via, quindi mi permetterò di dire qualcosa “tra adulti”.
Intanto ho vissuto questo momento con grande intensità ed anche emozione. Vengo, come il collega Comi, da una città che è Martire della Resistenza, Tolentino, decorata con Medaglia d’Argento assegnata con due successive fasi, prima dal Presidente Pertini, poi dal Presidente Cossiga, quindi zone che portano ancora la ferita profonda di quella tragedia. Ringrazio i relatori che in maniera cruda e veritiera hanno rinnovato quel ricordo.
Io partecipo da sempre, da bambino alle celebrazioni del 25 aprile nelle nostre città e siamo sempre in meno. Ma non è questo il problema, non mi interessa se siamo mille o cento, mi interessa l’intensità della partecipazione e tante volte vedo troppi ragazzi, anche troppi insegnanti annoiati dal fatto che quel 25 aprile che è festa, bisogna alzarsi presto per andare alla celebrazione.
La riflessione che voglio fare è la seguente. Io sento il 25 aprile come un patrimonio profondo, intimo, radicato in tutti gli italiani. Sento un disagio quando, per colpe più o meno di tutte le parti politiche, si cerca, con il 25 aprile, di tirare fuori dei dibattiti che sono veramente allucinanti, assurdi oggi, sia per chi giustamente, strenuamente difende i valori della Resistenza, sia per chi magari, avendoli vissuti in maniera superficiale cerca di allontanarne il ricordo e il valore.
Allora mi chiedo cosa c’è da fare. Sono stato onorato di essere stato relatore di minoranza della legge che abbiamo fatto per i “luoghi della memoria” che ricordano i nostri campi di concentramento, meno tragici rispetto a quelli del nord, però pur campi di concentramento, quindi di sofferenza.
Mi chiedo cosa dobbiamo fare come rappresentanti delle istituzioni. E così vi dico in maniera libera, forse anche un po’ superficiale, anche perché condizionato dall’emozione, quello che sento.
Primo, dobbiamo smetterla di giudicare oggi, tra politici, quei momenti, quegli anni con l’occhio di oggi. Oggi c’è la questione, ancora, ebrei-palestinesi, che ancora ci condiziona. Sappiamo che da qui al futuro forse non si ripeteranno più episodi tragici, ventenni come il nazifascismo, però rischiamo le lotte razziali, le repressioni delle diversità religiose. Queste sono le cose che rischiamo nei prossimi anni e già nel mondo, purtroppo, gli esempi ci sono. Ma quando giudichiamo quello che è avvenuto allora, non possiamo farlo con quello che è avvenuto oggi.
E allora le contestazioni che ci sono il 25 aprile pro o contro, che sono reazioni, battibecchi, ripicche — perché oltre non andiamo — sono cose assolutamente inadeguate e che non giovano alla cultura e all’educazione dei nostri giovani.
Faccio un esempio, di fronte al quale sono sereno ed obiettivo. Gli americani, gli inglesi: io non sono fra quelli che pensano che questo paese in 60 anni doveva dire sempre sì agli americani per quello che ci hanno dato durante la Resistenza, poi il “piano Marshall” e tutto quello che è avvenuto dopo. C’è chi era a favore e chi era contrario e nella storia di questi 60 anni il no agli americani si è detto tante volte. L’hanno detto i democristiani nella “questione mediterranea”, è stato detto per i missili a Sigonella, l’hanno detto i socialisti. Si è detto no più volte. Ma non si può neanche dimenticare quello che gli inglesi e gli americani hanno fatto per la vicenda dell’Iraq, che è un’altra cosa.
Allora bisogna che nelle scuole, nella scuola di partito ad ogni epoca si assegni un giudizio, ma secondo quell’epoca. Quindi niente sconti agli americani ma niente condanna per quello che avviene oggi, se non siamo d’accordo con gli americani, cosa legittima.
Trovo inadeguati i giudizi di oggi, quello che fa il Governo di oggi, chiunque sia: spostare la lotta politica di oggi sul giudizio di quello che è avvenuto ieri.
Saluto queste nonne che sono le donne della Resistenza e che ho adesso riconosciuto, alle quali sono profondamente grato, mi ha commosso quello che hanno detto, quello che hanno fatto. Loro giustamente dicono “ci sentiamo ancora di lottare”. Io capisco cosa significa quello che dite: significa che un’ingiustizia vi dà fastidio, significa che un’intolleranza vi dà fastidio, ma è questo che dovete dire ai nipoti: “oggi spostiamo la lotta su un altro fronte”. Cioè colpire l’intolleranza nel senso di dialogo, dialogo, dialogo. I nostri giovani nelle scuole spesso fanno scelte politiche come quando scelgono la squadra da tifare a livello sportivo: non approfondiscono cosa c’è dietro la faccia di un politico, che vita ha fatto, che idee ha avuto, come campa, quello che ha predicato in giro, come lavora. No, “mi è simpatico”, “non mi è simpatico”, “ha detto una frase ad effetto”.
Bisogna dire ai giovani, oggi, e lo chiedo a voi nonne oggi, ma lo chiedo ai genitori della mia generazione: troppo menefreghisti, troppo qualunquisti, troppo improvvisatori, troppo superficiali. Quanti ne sentite, anche di sinistra che dicono “basta questi partiti, è tutto uno schifo, è ora che la finiscano” ecc.? Glielo vogliamo dire o no che ventenni come quello fascista, come quello nazista sono venuti fuori dalla repubblica di Weimar, dall’Aventino, quando i partiti o non erano adeguati o sono fuggiti o non hanno fatto fino in fondo il proprio dovere. Le dittature sono venute fuori quando è mancato il sistema dei partiti. Oggi riforme, non riforme ecc., vogliamo dire ai giovani che non è stato ancora inventato un sistema diverso dai partiti e dalle forze politiche per tenere su la democrazia, o no? Questo c’è da dirlo ai nostri insegnanti, che una volta fanno piombare l’educazione civica nell’indifferenza perché non sono preparati o perché non vogliono dedicare l’ora di storia all’educazione civica e quindi c’è una carenza di informazione; dall’altra parte, se qualcuno è politicizzato calca troppo la mano. Due eccessi che non producono educazione.
Quanti dei nostri giovani sono convinti che l’avversario non è un nemico? Quante volte li sentiamo ragionare in termini di violenza mentale nei confronti di uno che la pensa diversamente? “Quello è comunista”, “quello è fascista” ecc. Detto da ragazzi di 16 anni che non sanno neanche che cosa significa e diventano settari senza sapere i contenuti.
Che cosa dobbiamo fare noi? Dialogo, tolleranza, esempio, moderare i linguaggi, comprensione, pazienza. Questo occorre per far capire dove sono le storture, gli equilibri. Magari non c’è un dittatore, ci può essere uno che non rispetta le regole, dal vigile urbano al direttore della casa di riposo, al capitano dei carabinieri, se con il suo personale non si comporta come il regolamento prevede.
Io sento profondamente come oggi la riflessione su questo tema sia inadeguata e bisogna correre ai ripari, ma soprattutto riportare l’attenzione di chi sta nelle istituzioni a una profonda coscienza di valori comuni che il 25 aprile rappresenta, che oggi ha rappresentato il 25 ottobre. Ho molto apprezzato l’intervento-confessione, molto spontaneo di Guido Castelli e credo che molto dobbiamo fare, però lo chiedo in particolar modo agli anziani, perché possano in questo momento parlare a quei nipoti che dentro casa trovate sempre meno.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Luchetti.

Marco LUCHETTI. Un saluto a tutti voi. Questi nostri lavori hanno un grande pregio storico, perché nel loro svolgimento abbiamo ascoltato testimonianze, aspetti molto importanti. La storia continua ad essere madre di vita. Però, riflettendo un po’ tra me — penso che questo sia lo scopo di questo nostro incontro, quello di ricordare ma anche quello di capire, attraverso il ricordo, quali sono le nostre prospettive — nel pensare alle prospettive, che non possono non tener conto della nostra storia, mi sono sentito inadeguato rispetto a quello che abbiamo ascoltato, fortemente inadeguato. Non solo perché viviamo un tempo dove si brucia la memoria, nel senso che non ci ricordiamo più neanche di quello che succede o di quello che è successo una settimana fa. I tempi di oggi, la comunicazione, gli spazi sono così fulminei che non ci consentono di pensare. Anche i tempi con cui scandiamo la nostra vita quotidiana, non solo per il “telefonino”, per tutto quello che facciamo non ci consentono di essere noi stessi e siamo prigionieri di uno schema di vita che non ci consente di pensare.
Leggevo in un libretto le lettere di coloro che sono stati fucilati e sono cose commoventi. Però questa eredità, questi esempi che hanno consentito la vita democratica e che hanno sentito anche oggi Guido Castelli venire qua a dire la sua testimonianza — probabilmente vent’anni fa non gli sarebbe stato concesso — mi ha fatto capire che siamo tutto sommato cresciuti, da questo punto di vista, senza mai dimenticare quello che è stato, senza mai rifuggire dal giudicare nel giudicare la storia. Siamo cresciuti attraverso questo grande patrimonio che ci è stato dato, ma come riusciamo a testimoniarlo, oggi? Io penso che quando oltrepasseremo quella porta, anche a noi capiterà, dopo queste brevi ore di riflessione, di essere affaccendati in altre cose e probabilmente di dimenticare le riflessioni che ci sono venute fuori in questi momenti.
Come facciamo a testimoniare questa cosa? Credo che l’unica cosa che c’è da fare sia quella di recuperare una forte etica pubblica che consolidi le nostre istituzioni democratiche, le quali rischiano la consunzione, rischiano il logoramento. Non possiamo consentire questo, proprio per coloro che hanno dato la vita e che noi non riusciamo più a ricordare. Però il fatto che non siamo riusciti a creare un’etica forte nelle istituzioni, per esempio nei giovani, è una grande responsabilità che ci portiamo dietro, una grandissima responsabilità. Non basta dire “dite ai giovani che i partiti sono importanti”, credo che dobbiamo partire, ovviamente, da noi cercando di ricostruire attraverso la politica, attraverso il funzionamento delle istituzioni un’etica pubblica che, se non rinnovata, se non ripresa adeguatamente per consolidare l’esercizio dei diritti di democrazia, rischia l’involuzione. Il rischio è mettere in gioco la stessa libertà che non ci è concessa una volta per sempre, e la storia ce lo insegna.
Ecco allora il messaggio forte dei 60 anni dalla Liberazione. L’unica strada che ci consente di mantenere fede e dare testimonianza a quella gente che ha lottato qui a Cantiano, sul Monte della Crescia, nella nostra terra, in tutta Italia e che in qualche modo ha riscattato le nostre responsabilità. Se non ci fosse stato quel riscatto — si parlava delle “sassate” che gli italiani prendevano dentro i campi di concentramento — probabilmente la nostra memoria sarebbe stata di altra natura.
Allora recuperare un’etica pubblica è il compito che abbiamo oggi. Credo che sia stata una buona idea quella di venire a Cantiano a fare questa cosa, però dobbiamo andare oltre, abbiamo un compito forte: quello di lasciare alle generazioni future una testimonianza e un esempio di continuità che trae radice da questo episodio della Resistenza e della fine della guerra, ma che lancia un messaggio importantissimo per il futuro, messaggio che può essere corroborato unicamente da un’etica pubblica forte, rinsaldata, che sta dentro i cuori della gente e non solamente nelle declamazioni di chi rappresenta le istituzioni, di chi rappresenta l’attuale democrazia.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Procaccini.

Cesare PROCACCINI. Saluto gli intervenuti, gli amici, i compagni, il presidente dell’Anpi. Voglio portare un breve contributo a questo Consiglio regionale aperto da parte del gruppo dei Comunisti italiani. Il taglio dato dalle relazioni, oserei dire scientifico, rispetto alla Resistenza, fa in qualche modo venir meno il rischio di scadere nel celebrazionismo, nella retorica.
In effetti parliamo di qualcosa di vivo, di attuale, proiettato anche per il futuro. Oggi, per la verità, non c’è la necessità della pacificazione, perché con la vittoria delle forze democratiche ed antifasciste in Italia si è aperta e si è dispiegata la democrazia, la libertà. Se mai c’è un altro rischio: quello che questa libertà e questa democrazia non siano acquisite per sempre, perché quelle motivazioni che portarono alla lotta di tanti uomini e di tante donne non sono acquisite per sempre, poiché sullo scenario internazionale riappare la guerra come momento di risoluzione dei problemi ed anche nel nostro paese tentativi di rimettere in discussione i valori acquisiti dalla Resistenza sono più vivi che mai.
Quelle motivazioni che portarono alla lotta di liberazione furono sostanzialmente tre. In primo luogo il riscatto del nostro paese rispetto all’occupazione nazista e fascista, straniera soprattutto. in secondo luogo quella dei diritti: la libertà conculcata. In terzo luogo anche motivazioni sociali. Non è un caso che nel nostro paese il fascismo iniziò ad essere sconfitto con le grandi lotte operaie, ancor prima che partigiane: i grandi scioperi di Milano, di Torino, di Genova, al sud e al nord, le “cinque giornate di Napoli” portarono un movimento di massa contro il fascismo e contro il nazismo. Nelle Marche ogni nostro paese, ogni nostro comune è stato luogo di eccidi, di deportazioni, quasi a comunicare per il futuro, quella necessità di recuperare una battaglia internazionale per la libertà. Ci furono morti stranieri nelle nostre zone: jugoslavi, francesi, sovietici, polacchi, addirittura nord africani. Ebbene questo messaggio, se possibile, le istituzioni lo debbono accogliere e proiettarlo per il futuro, per le nuove generazioni, non in senso paternalistico ma proprio come parte attiva di una nuova Resistenza, perché in effetti, oggi, c’è un tentativo di rimettere in discussione queste cose.
Alcuni colleghi parlavano del 25 aprile come data essenziale del ricordo. Ebbene il 25 aprile è disertato dal presidente del Consiglio dei ministri che la ritiene una data superflua. C’è stata e c’è anche una sottovalutazione delle forze democratiche, una sorta di revisionismo, come se non si fosse sicuri di sé, come se ci fosse la necessità di una nuova legittimazione. C’è un pudore malcelato, l’abbiamo visto anche nelle parole, cambiate, della bella canzone “Fischia il vento”. Ci sono delle parole censurate. Questo non serve a far capire la storia. Ecco perché diciamo che la Resistenza non appartiene ad un museo polveroso ma al futuro.

PRESIDENTE. Permettetemi di fare i complimenti al sindaco di Cantiano per la bella sala nella quale ci ha accolto e ci ha permesso di fare questo Consiglio regionale aperto. E’ la “Sala della cultura” del Comune di Cantiano, è anche la mostra permanente di Oscar Piattella ed è anche una sala dotata di ottimi strumenti audiovisivi che ci permette quindi di continuare bene i nostri lavori. A dimostrazione che anche nelle nostre piccole città c’è una forte sensibilità per l’arte, una creazione di spazi utili per la comunità e per tutte le comunicazioni che la comunità intende darsi.
Ha la parola il consigliere Giannini.

Sara GIANNINI. Avevo preparato un intervento, ma dopo le immagini che abbiamo visto e la testimonianza del direttore del campo di concentramento di Auschwitz, l’intervento non mi sembra molto adatto. Ho visto le immagini di queste donne che ricordavano la vita che hanno vissuto, quei momenti eccezionali che le hanno coinvolte personalmente. Sembrava avessero davanti agli occhi gli uomini, le persone, i bambini che insieme a loro avevano vissuto quei momenti. Molti di loro non hanno potuto vivere gli anni della democrazia e della libertà che invece la Resistenza ha consegnato a noi e che ci consente oggi di essere in questa sala, di parlare, di esprimere le posizioni, posizioni che provengono da storie e da percorsi diversi.
Penso che noi dobbiamo essere veri, non possiamo in questo momento, ma anche nelle discussioni con le quali ci avviciniamo a questi momenti, parlare il linguaggio dell’ipocrisia. Credo che la memoria, il giudizio che ognuno di noi dà di quello che è accaduto in quegli anni non possa essere condiviso da tutti e credo che dobbiamo rispettare, giustamente, i morti, coloro che oggi non ci sono più, ma dobbiamo anche ricordare il motivo per cui una donna è morta o un bambino è stato ucciso in maniera così devastante come ci hanno raccontato. Credo che dobbiamo ricordare e soprattutto riaffermare che le motivazioni di quella battaglia e di quella lotta sono motivazioni di libertà, di democrazia.
Io non ho vissuto personalmente quel periodo, ma ricordo le cose che i miei nonni mi raccontavano: in quegli anni bui, in cui sembrava che non ci fosse futuro, tanto uomini e tante donne insieme, che provenivano da testimonianze di vita culturale diversa, da stili di vita diversi, da passati politici diversi, insieme hanno capito che invece una speranza, una possibilità c’era, l’hanno giocata fino in fondo, hanno dato la vita per quello e oggi noi, questa cosa non la possiamo annacquare. Credo che questo sia un tributo alla verità. Naturalmente questo deve essere un modo anche per guardare avanti e io condivido quello che diceva Luchetti: bisogna recuperare l’etica della politica, della cosa pubblica, bisogna che recuperiamo noi, e bisogna che lo recuperino soprattutto i giovani, il rispetto per le istituzioni. Credo che lo Stato democratico non sia mai una cosa scontata e credo che sia il frutto del lavoro di tutti noi, soprattutto noi che svolgiamo un ruolo istituzionale che i cittadini ci hanno assegnato, ricordandoci che i fatti che ci hanno raccontato queste donne sono stati percorsi che hanno fatto sorridendo. E’ una cosa straordinaria che in questo momento mi emoziona molto. Credo che non lo possiamo sottovalutare.
L’impegno e la responsabilità forti che ci consegnano, sono quelli di ricordare che nelle nostre decisioni, quelle che prendiamo ogni giorno e che ci sembrano inutili, più piccoli, più semplici noi creiamo qualcosa che nel futuro dovrà essere giudicato, come noi giudichiamo con severità anche quello che è accaduto nel passato.
Quindi questo senso di responsabilità, oggi lo sento forte e credo che ce lo dobbiamo portare dietro anche uscendo da qui.
Ringrazio il Presidente del Consiglio Minardi che ci ha proposto di celebrare qui questo Consiglio regionale, il sindaco della città di Cantiano che rappresenta una grande storia e il presidente della provincia di Pesaro e Urbino Ucchielli, che ci hanno ospitato nella loro terra.

PRESIDENTE. Erano previsti gli interventi di Giuliano Brandoni e di Roberto Giannotti che hanno rinunciato per permetterci di essere in orario. Presenteranno il loro intervento scritto che sarà pubblicato insieme agli altri.
Do la parola, per le conclusioni di questa fase di dibattito al Presidente della Giunta regionale Gian Mario Spacca.

Gian Mario SPACCA, Presidente della Giunta. Innanzitutto credo sia doveroso un ringraziamento al sindaco di Cantiano Martino Panico per averci offerto la possibilità di celebrare questo 60° Anniversario della Liberazione in un contesto così pieno di passione, così denso di umanità, così denso di civiltà.
Vorrei ringraziare anche tutti coloro che sono intervenuti, a cominciare dal presidente dell’Anpi Emilio Ferretti e tutti coloro che ci hanno offerto un contributo di riflessione che ha, come è stato detto, una valenza anche di carattere storico-scientifico. Un ringraziamento particolare credo lo dobbiamo a Henryk Swiebocki, direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, perché ha portato un tocco profondo di umanità vissuta, che anch’io ho avuto modo di provare non più tardi di tre settimane or sono quando, in occasione della I Conferenza delle Regioni d’Europa, che si è svolta a Cracovia, c’è stata la possibilità di visitare il Museo di Auschwitz, c’è stata la possibilità di toccare con mano quelle esperienze e quelle testimonianze che lui oggi ha provato a tradurre, che veramente vale la pena di vivere, perché sono più forti di qualsiasi parola e davvero credo dovremmo organizzare il modo di tradurre questa nostra riflessione vivendo quella testimonianza, vivendo quegli episodi che lui ci raccontava.
Ricordo con raccapriccio i biglietti di quelle persone che da Atene vennero portate ad Auschwitz, i biglietti dei treni che loro pagavano per fare quel viaggio senza ritorno. Perché pagavano anche il biglietto per fare quel viaggio che si organizzava in quelle modalità così drammatiche. Oppure i quintali di capelli, che ancora restano, delle persone che venivano rasate prima di essere inserite nei campi di concentramento. Testimonianze raccapriccianti di cosa può l’orrore della guerra e l’ideologia quando oltrepassano quelli che sono i valori dell’uomo e si incardinano in altre cose che appartengono ad una devianza che è incomprensibile anche per la ragione umana.
Oggi siamo tutti qui, cittadini che sono carichi di responsabilità verso la comunità e verso le loro famiglie e cittadini che sono invece caricati della responsabilità di rappresentare le istituzioni. Siamo tutti qui, insieme, per testimoniare, sfuggendo dalla retorica e dalla ritualità, la nostra riconoscenza a tante persone che sono diventati eroi.
Abbiamo ricordato alcuni nomi: Francesco Tumiati, Augusto Fiorucci, Tommaso Cordelli, Francesco Battilocchio che sono espressione di questo territorio, ma ci sono tanti altri eroi della Resistenza marchigiana e della Resistenza in genere, che hanno contribuito alla edificazione della nostra democrazia e noi siamo qui, oggi, per ricordarli tutti. Siamo qui perché questo non resti soltanto un ricordo da rispolverare in occasione delle celebrazioni, ma occorre che noi oggi, attraverso questa cerimonia, facciamo nostre le loro storie, perché soltanto così il loro sacrificio avrà avuto un senso. Il loro coraggio, il loro essere animati da passione civile, da ideali di giustizia e di libertà debbono divenire per noi, come è stato detto negli ultimi interventi dei colleghi del Consiglio regionale, prassi quotidiana della nostra esperienza all’interno delle istituzioni, della nostra esperienza all’interno della vita di relazione nell’ambito della nostra comunità, qualunque sia il nostro ruolo. Siamo di fronte a una delle più immani tragedie dell’umanità qual è stata la seconda guerra mondiale e siamo riusciti ad uscirne proprio per il coraggio, la convinzione, la determinazione che è stata testimoniata dal sacrificio estremo di tante persone come quelle che oggi noi ricordiamo, che appartengono ad ogni fascia di età, a ogni ceto sociale. Ogni paese, ogni città della nostra regione testimoniano l’impegno di una parte consistente della popolazione nella lotta per il riscatto dal fascismo, impegno che si è organizzato in forme diverse: dalla partecipazione attiva e di supporto alla lotta armata contro il nazifascismo alle forme di solidarietà e di accoglienza che hanno visto protagoniste tante famiglie, contadine e non soltanto. Il moto per la democrazia, la libertà e la pace, nonostante la necessità momentanea delle armi, che noi chiamiamo Resistenza, ha visto la luce non soltanto qui da noi, nelle Marche o in Italia ma è stato un moto di popolo che ha toccato tutta l’Europa, che ha toccato la Francia, la Polonia, la ex Jugoslavia, la stessa Germania, contribuendo anche militarmente, negli altri paesi europei occupati dai nazisti, a rendere più agevole l’azione degli alleati, l’azione di liberazione e ponendo quindi le premesse politiche per creare quel movimento democratico che poi ha dato vita all’Europa.
Proprio sull’Europa vorrei ritagliare il profilo di questa breve riflessione, perché la Resistenza è stato un fenomeno virtuoso, eccezionale, italiano ma non soltanto italiano, ha avuto la caratteristica di essere stato, pur nella diversità degli orientamenti politici e ideologici, fortemente unitario e sul versante strettamente militare la lotta contro “l’altra parte” è stata sì cruentae, ma orientata a un fine nobilissimo come la realizzazione della democrazia in Europa, nella nostra Europa che è la nostra nuova patria. La Resistenza è stata quindi anche una scuola di democrazia, una sorta di palestra nella quale si sono formati uomini di ogni orientamento politico, che successivamente hanno contribuito, con la forza della loro esperienza e delle loro idee, alla costruzione di questa nuova Italia il cui architrave è dato dalla Costituzione che rappresenta l’eredità della Resistenza, come elemento fondante dell’unità etnico-politica del nostro popolo, a cui, anche nei momenti più bui e confusi possiamo richiamarci per riacquistare stabilità e vigore.
Tra i tanti protagonisti della Costituzione consentitemi di citarne uno: la figura carismatica di don Giuseppe Dossetti, che in una lettera del 1994 al sindaco di Bologna, che lo aveva invitato a partecipare a una celebrazione come quella che noi stiamo facendo qui oggi, scrisse: “Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente, nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti post-bellici e da risentimenti faziosi volti al passato. Altri ancora si richiamano alla resistenza, con cui l’Italia può avere ritrovato il suo onore ed in un certo modo si è omologata ad una certa cultura internazionale. E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la costituzione italiana è nata ed è stata ispirata, come e più di altre pochissime costituzioni, da un grande fatto globale, cioè da sei anni della seconda guerra mondiale, dalle sofferenze, dal dolore generato dalla seconda guerra mondiale che ha attivato, che ha scaturito la profonda sensibilità che ha portato alla redazione della nostra carta fondamentale su cui si organizza la nostra convivenza, la costituzione”.
E’ dunque tutta la storia del XX secolo che va considerata rispetto alla Costituzione e tra in essa, in modo particolare, la Resistenza, la lotta che è stata fatta durante la Resistenza in tutte le sue componenti oggettive. Al di là delle visioni parziali che possiamo avere oggi, questa vicenda storica è un e evento straordinario, enorme, che nessun uomo, anche quelli che oggi nascono, può sottovalutare, può accantonare o attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia, qualunque ne abbia e con qualunque animo la scruti, perché dotata di una fortissima oggettività, un’oggettività che appartiene alle cose che sono scritte nei nostri cuori e che rappresentano l’identità della nostra dimensione di persone.
La Costituzione italiana del 1948 si può ben dire che sia nata da un crogiolo ardente universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del post-fascismo, più dal confronto-scontro di ideologie datate, quindi porta uno spirito universale che oltrepassa qualsiasi profilo temporale. E’ proprio in base a questa sua caratteristica che la nostra Costituzione, non dimentichiamolo, raccolse il 90% dei consensi dell’Assemblea costituente, fu organizzata dal ministro costituente, Pietro Nenni, ma ebbe la firma di Enrico De Nicola, che era il capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale, quella di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del Partito comunista italiano e da Alcide De Gasperi che era presidente del Consiglio e primo successore di Sturzo alla segreteria del Partito popolare.
Quindi oggi, nella dimensione del nostro tempo, noi facciamo fatica a intravedere quello spirito unitario e facciamo fatica a comprendere la legittima esigenza, sia pure di dover aggiornare la Costituzione, mentre, con quello stesso spirito, ci appare chiarissima l’assurda volontà di volerla modificare con una visione di parte, qualunque sia la sua aspirazione. Quindi dobbiamo ritornare a quella dimensione di unità che ci porta a riscoprire le ragioni fondanti della nostra convivenza, per ritrovare su di essa quell’unità che non ha parzialità. E’ questa l’essenza di un documento che costituisce la Carta costituzionale di un paese e questa essenza noi la dobbiamo proiettare verso i giovani, come è stato detto, per la loro necessità di recuperare passioni e riscoprire ideali. A questo guardano i giovani, di questo hanno bisogno i giovani. Vi è in loro un forte bisogno di essere contagiati da una politica alta, che sia capace di interpretare i loro bisogni, di misurarsi con i nuovi scenari europei, di approfondire i processi di globalizzazione, in una logica di valorizzazione dei principi fondanti che appartengono alla nostra convivenza, che orientano la nostra convivenza in termini positivi e che ci riportano ai fondamenti della nostra Carta costituzionale.
Una politica, dunque, che sia capace di governare lo sviluppo, di cooperare, di riconoscere le ragioni degli altri, di far partecipare alle grandi decisioni le rappresentanze dei popoli, di tutti i popoli, non escludendo alcuno, nessuna grande cultura, nessuna religione, nessuna area. Una politica capace di rifiutare la guerra come soluzione delle contrapposizioni, delle divergenze, che rispetti e valorizzi l’articolo 11 della nostra Costituzione in cui si dice che l’Italia ripudia la guerra e che impegna ciascuno di noi a diventare davvero un costruttore di pace, consapevoli che la guerra, ogni guerra, è un’offesa alla capacità delle persone di utilizzare il cervello e il cuore per costruire un mondo libero in cui trionfino la giustizia sociale, la pace e la libertà che sono i valori che ci hanno affidato gli eroi della Resistenza e che sono scritti nella nostra Costituzione repubblicana.
Non è un compito facile oggi, in questi tempi, testimoniare questi valori, ma dobbiamo provarci, perché questa è la missione che ci viene affidata come ci è stata tramandata dai nostri genitori, e noi dobbiamo far sì che divenga anche la missione dei nostri figli perché allora, in quegli anni che oggi celebriamo sembrava che un’intera civiltà fosse al tramonto, fosse finita, eppure in quel contesto seppero emergere energie generose, vive come quelle che ricordiamo di Francesco Tumiati, di Fiorucci, di Cordelli, di Battilocchio, quelle energie che seppero guardare con sguardo forte e illuminato al loro futuro e noi dobbiamo avere lo stesso sguardo, quello stesso sguardo che è apparso in quella donna al termine della proiezione che abbiamo visto, quello sguardo forte, cordiale, coraggioso, pieno di fiducia, che guarda al nostro futuro, che si chiama “un’Europa di pace, di giustizia, di libertà e di democrazia”. Anche per questo l’intervento che oggi abbiamo avuto da parte del direttore del Museo di Auschwitz dobbiamo metterlo al centro della nostra riflessione, perché è una riflessione ancorata al cuore d’Europa. E’ lì il cuore dell’Europa: il cuore della nostra Europa, della nostra patria è Auschwitz. E’ da lì che possiamo davvero costruire quell’Europa ancorata ai valori di pace, di libertà e di democrazia.

Simone SOCIONOVO, Direttore del servizio informazione e comunicazione del Consiglio regionale. Pasquale Rotondi, come diceva prima il presidente Minardi, è il “Perlasca dell’arte”, come è stato spesso definito, soprintendente alle Belle Arti di Urbino ebbe l’idea e il coraggio di cercare rifugio per tante opere d’arte di immenso valore, minacciate dal conflitto mondiale. Opere che vanno da Giorgione a Tiziano, da Raffaello a Piero della Francesca. Venne aiutato, è bene ricordarlo, dalla popolazione locale.
Vediamo insieme La lista di Pasquale Rotondi di cui, lo ricordiamo, è autore e regista Giuseppe Saponara che è presente in sala. Buona visione.

(Viene proiettato il film
“La lista di Pasquale Rotondi”)

Simone SOCIONOVO. Siamo in chiusura, è arrivato il momento dei riconoscimenti per il film che abbiamo appena visto, ma prima il Consiglio regionale, ringraziandolo ancora per la sua presenza e la toccante testimonianza che ha portato in questa sala consegna un omaggio ad Henryk Swiebocki, dirigente del Museo statale di Auschwitz. Procede alla consegna Michele Altomeni, consigliere segretario dell’Ufficio di presidenza.

(Viene consegnato il riconoscimento
ad Henryk Swiebocki)

Il Presidente Minardi ha letto poco fa la lettera delle figlie di Pasquale Rotondi, Paola e Giovanna, che hanno delegato Oriano Giacomi a ritirare l’omaggio del Consiglio. Consegna ancora Michele Altomeni.

(Vengono consegnati, a Oriano Giacomi,
i riconoscimenti per Paola e Giovanna Rotondi)

Se un cortometraggio riesce a cogliere nel segno giusto è merito anche e soprattutto della regia. Il Presidente del Consiglio regionale Luigi Minardi premia l’autore e regista del film “La lista di Pasquale Rotondi”, Giuseppe Saponara.

(Viene consegnato il riconoscimento
a Giuseppe Saponara)

Infine non poteva mancare un omaggio e un ringraziamento sentito al “padrone di casa”, il sindaco di Cantiano Martino Panico a cui rivolgiamo un caloroso applauso per la sua accoglienza e gli consegniamo un omaggio.

(Viene consegnato un omaggio
al sindaco di Cantiano Martino Panico)

PRESIDENTE. Ringrazio tutti. La seduta è tolta.


La seduta termina alle 18,50



APPENDICE

Contributo scritto del consigliere Franco Capponi,
presidente del gruppo di Forza Italia alla Regione Marche

La Resistenza fu certamente un grande evento nella storia italiana e contribuì fortemente alla costituzione della nostra Repubblica. A sessanta anni di distanza è giunto però il momento di trovare una memoria comune condivisa per i due seguenti motivi fondamentali.
In questi anni il lavoro degli storici più onesti, capaci di penetrare la storia senza preconcetti ma con metodo scientifico (Renzo De Felice su tutti), ha prodotto una inversione di tendenza negli studi della Resistenza concretizzati in alcuni punti fermi da cui non si potrà più prescindere.
L’idea forte è che tra il ’43 e il ’45 ci fu una guerra civile, che l’Italia venne liberata soprattutto grazie agli interventi degli alleati (gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra, Nazioni democratiche ferme e determinate nei loro valori di libertà) i quali sconfissero il nazi-fascismo con l’ausilio “fondamentale ma minoritario” della Resistenza armata italiana.
Va anche detto che la Resistenza non è stata la liberazione dall’imperialismo (antimericanismo), né lotta di classe in chiave marxista degli operai da una parte e dagli oppressori borghesi dall’altra, ma lotta di liberazione da un regime dittatoriale, il fascismo, e da un’occupazione militare da parte di una potenza straniera come la Germania guidata anch’essa da un regime criminale come quello nazista.
Va aggiunta un’altra considerazione: che all’interno della Resistenza il progetto comunista, che pure costò la vita a centinaia di militanti, aveva fini ulteriori a quelli patriottici e che dopo la guerra, come ha scritto anche Panza, i comunisti perpetrarono per vendetta massacri di notevoli proporzioni che costarono la vita a colpevoli ma anche a molti innocenti, fatti che rimasero sepolti per decenni ma che la verità storica ha avuto recentemente il merito di far conoscere agli italiani.
Infine va ricordato che componenti importanti della guerra di liberazione furono lasciate in ombra mediante un’opera di egemonizzazione e di liturgizzazione di questa fase storica del nostro Paese.
La scomparsa di gran parte di testimoni oculari, che giustamente avevano posizioni ferme e comprensibili senza alcuna giustificazione per il nemico, ha significato e porterà sempre più nel tempo a commemorazioni ed a valutazioni meno conflittuali in cui la riconquistata libertà e democrazia prevarranno sui fatti tragici di quel periodo, pur mossi da nobili ideali.
Solo se si andrà condensando una memoria comune per tutti gli italiani, senza prevalenze ideologiche di questa o quella parte politica democratica, la Resistenza sarà celebrata come festa di tutto il popolo italiano e vedrà noi di Forza Italia in prima fila; caso contrario non siamo disposti a partecipare a manifestazioni che si svolgono o possono svolgersi con intenti tesi a strumentalizzare la storia, a dividere invece di unire con comportamenti antidemocratici, ancor solo verbali, portatori di odio e non di pacificazione.
I valori della libertà e della democrazia si difendono e si sviluppano in un confronto civile e politico anche aspro, ma al di fuori di un “nuovo fascismo”, da qualunque parte provenga, di cui l’Italia non ha certamente bisogno ed al quale ci opporremo democraticamente oggi come ieri e sempre.
E’ altresì necessario che cessino comportamenti di demonizzazione e di odio verso gli Stati Uniti d’America, che furono al nostro fianco da liberatori nella cacciata dei tedeschi e del fascismo.
Coloro che pensano strumentalmente di poter distinguere il popolo americano dal proprio governo liberamente eletto, ispirandosi a posizioni preconcette che non trovano alcuna giustificazione in una società civile del nostro occidente, è cosa molto grave.
Una cosa è il dissenso politico un’altra la discriminazione fondata su presupposti ideologici.
Forza Italia, infatti, non si sogna minimamente di demonizzare un eventuale Governo americano guidato da un Presidente appartenente al partito democratico, perché sa che gli USA sono una grande democrazia e la forza politica che esce vincente da un confronto elettorale ha il dovere ed il diritto di governare perchè rappresenta tutto il popolo e deve avere il rispetto di quanti credono nei comuni valori della libertà e di un sistema politico democratico in cui maggioranza ed opposizione si alternano al potere pacificamente e con libere elezioni, nel rispetto degli uni e degli altri.
Infine, smettiamola una volta per tutte di considerare Resistenti, gli iracheni che lottano per riportare indietro le “lancette” della storia e ricondurre il loro Paese verso l’oscurantismo ed il fanatismo religioso e la dittatura, che hanno significato centinaia di migliaia di morti ed il massacro di etnie come il popolo curdo.
Essi vanno chiamati semplicemente terroristi e, nella migliore delle ipotesi, fascisti.
Al contrario in nome della nostra Resistenza, dobbiamo sostenere, manifestare ed aiutare le donne irachene portatrici della vita a cui va tutta la nostra solidarietà e che costituiscono la vera Resistenza dell’Iraq.
In fila sotto le bombe per esprimere pacificamente il loro dissenso totale e pacifico contro i portatori di morte: i terroristi, che intendono relegarle di nuovo in un ruolo di sudditanza antistorico ed antiumano.
La Resistenza significa dunque contribuire a ridare speranza nella dignità umana, nella libertà e nella democrazia a tutti i popoli oppressi, con comportamenti di vera solidarietà e di partecipazione a tutte quelle azioni che si muovono in questo senso ed accanto ai Paesi che intendono operare su questa via.
Sono certo che il mio breve intervento contribuirà ad una migliore comprensione e riflessione sui valori comuni della Resistenza purchè correttamente intesi, affinché possano divenire memoria di tutti nel segno della libertà, scevra da odi e da posizioni di egemonia politica e culturale.
Solo così questo eroico periodo della nostra storia, con le sue luci e con alcune ombre, consentirà di celebrare la Resistenza con spirito di concordia e di pace e potrà, il 25 aprile, continuare ad essere una data importante per il nostro popolo e non cadrà nell’oblio come altre date non meno significative sia per la costruzione dell’edificio unitario, sia per la storia del popolo italiano.
Ci riferiamo: al 1861, anno di unità d’Italia; al 20 settembre 1870, la conquista di Roma che significò l’esclusione dei cattolici dalla vita pubblica per decenni; al 4 dicembre 1918, la fine e la vittoria nella prima guerra mondiale che costò all’Italia ben 600.000 morti; al 2 giugno 1946, referendum che segnò la vittoria della Repubblica sulla monarchia e che permise alle donne di divenire cittadini di serie A potendo come gli uomini fare le loro scelte.
Offrire dunque con la Resistenza, a tutti gli italiani, una memoria collettiva capace di affermarsi come un orizzonte culturale in cui tutti possano e siano aiutati a riconoscersi.
Il cammino non è semplice ma se non vogliamo tradire lo spirito della Resistenza e di tutti coloro che hanno dato la vita per essa dobbiamo percorrerlo fino in fondo sempre nel rispetto della verità.