Resoconto seduta n. 83 del 10/04/2002
La seduta inizia alle 10,30


Luigi MINARDI, Presidente Consiglio regionale delle Marche. Mentre si concludono i lavori della VI Commissione che è riunita, auspicando che il Presidente Vito D'Ambrosio possa quanto prima raggiungerci — è fuori per motivi istituzionali, sarà quanto prima con noi — direi di cominciare i nostri lavori che si prevede saranno lunghi, perché sono diversi gli interventi programmati e credo che dovremmo organizzarci per concludere tutto il lavoro nella mattinata, facendo una lunga tirata.
Voglio ringraziare, ovviamente, i numerosi intervenuti rappresentanti di associazioni, di enti locali, ringrazio le autorità militari presenti, i rettori delle università, a testimonianza che c’è attenzione nel lavoro che stiamo svolgendo di conoscenza della società marchigiana.
Come sapete già, nel Consiglio odierno non parliamo ancora di Statuto. Un anno fa il Consiglio Regionale ha giustamente deciso di evitare di fare della sua elaborazione un momento puramente tecnico e di commissionare vari lavori di ricerca per prendere le misure della società marchigiana. Il lavoro è proceduto bene, i risultati delle ricerche sono già stati presentati in tutte le province nell'intenzione di coinvolgere sempre più ampi settori della società marchigiana; sono stati messi a disposizione sul sito del Consiglio di quanti vogliano studiarli.
Nei prossimi giorni sottoporremo la bozza dell'articolato sui principi fondamentali da inserire nello Statuto, elaborata dall'apposita Commissione, agli studenti di tutti i trienni delle scuole secondarie superiori della Regione per avere il loro punto di vista . Nel mese di maggio sarà convocato un nuovo Consiglio Regionale aperto come l'odierno, per discutere la relazione del Dr De Rita sul tema di come rappresentare il policentrismo marchigiano. In seguito si aggiungeranno alle ricerche già consegnate, un nuovo studio del Laboratorio LaPolis diretto dal prof. Diamanti sulle politiche di integrazione condotte dagli EELL della nostra regione ed il consorzio delle università marchigiane consegnerà la ricerca sui cambiamenti dei poteri locali nelle Marche. Stiamo conducendo dunque un lavoro veramente impegnativo ed interessante.
Per l'incontro odierno ho chiesto al prof. Diamanti di preparare per il Consiglio regionale una relazione su come vede le Marche. Il professore lavora nelle Marche da oltre un decennio, ha iniziato con noi una collaborazione e sulla base della sua esperienza pratica e della sua ricerca si è formato un'idea della nostra regione. Ho ritenuto il suo punto di vista, quindi, un interessante termine di confronto per i consiglieri e per un pezzo della classe dirigente regionale chiamati quotidianamente a cercare di sintonizzare la loro azione con il movimento di fondo della società marchigiana .
A me interessa soprattutto ragionare su tre caratteristiche che determinano la personalità della nostra regione. La piccola dimensione e la dispersione della popolazione, delle città, delle imprese e della stessa regione ed inoltre, la vocazione imprenditoriale dei suoi abitanti formatasi in centinaia di anni di pratiche mezzadrili che poi stanno anche all'origine della dispersione e della piccola dimensione.
Sappiamo il ruolo che tutto ciò ha giocato nello sviluppo industriale. Dobbiamo meglio conoscere che ruolo possono svolgere nella nuova fase di sviluppo. Le nostre città ad esempio che, scomparsi i vecchi centri di gravità, devono allungare le reti delle loro relazioni. Le nostre imprese anch'esse alle prese con inedite sfide competitive. Entrambe ci impongono di ragionare sulla loro dimensione sullo spazio in cui esercitano la loro azione e sulla sua organizzazione. Un conto è organizzare la città e l'impresa quando la produzione interessa prevalentemente il mercato locale, un altro è organizzare la presenza internazionale della propria impresa. E questo cambiamento è avvenuto da noi in un tempo storico brevissimo.
Oggi è importante individuare la scala che ci serve per impostare correttamente i nostri ragionamenti, senza di che perdiamo la giusta prospettiva ed i nostri interventi rischiano di diventare velleitari. Se continuiamo ad usare la scala cittadina ad esempio. Per la scuola, per l'università, nella sanità, per i sevizi alle imprese, quali sono i bacini di utenza ottimali e quali funzioni distinte devono svolgervi le singole parti dei vari sistemi? Come queste si specializzano e come si possono integrare per fare sistema?
Oggi dobbiamo individuare anche l'ambito sovraregionale ottimale per la nostra economia, per progettare il sistema infrastrutturale capace di interconnetterlo ed il sistema dei servizi capace di integrarlo e di svilupparlo.
Dobbiamo saper costruire nuove gerarchie di funzioni in un sistema abbastanza omogeneo, sostanzialmente privo di leadership naturali e dotato di molti campanili. Comprendere se questo processo richieda una direzione politica, di quale presenza pubblica ha bisogno ed individuare quali resistenze si oppongono alla formazioni di nuove leadership.
Dobbiamo capire come nel riassetto del nostro sistema economico e sociale, urbano e territoriale, si possano presentare nuove opportunità all'attivismo imprenditoriale marchigiano e come si possa consolidare la coesione sociale che sta alla base della forza del sistema.
Sono solo alcune delle domande che abbiamo di fronte per individuare i nostri punti di forza da potenziare ed i limiti da superare.
Questo lavoro sul pensiero strategico ci deve permettere di cogliere il senso di marcia della nostra Regione ed offrire il quadro dentro il quale inserire la nostra azione. Sono convinto che l'intero sistema della rappresentanza, il Consiglio regionale come massima espressione della rappresentanza degli interessi della nostra Regione, assieme alla rappresentanza territoriale (ANCI; Lega, UPI, UNCEM), sociale e politica debbano disporre di uno strumento idoneo a produrre sistematicamente pensiero strategico capace di alimentare le conoscenze e di orientare il lavoro delle classi dirigenti della nostra regione. Oggi questo strumento non c'è. Per questo mi va di lanciare un'idea all'intero sistema della rappresentanza di lavorare nei prossimi mesi ad impegnarci a progettarlo, a finanziarlo ed a iniziare ad utilizzarlo adeguatamente. Questa necessità negli incontri preparatori di questo Consiglio mi pare sia stata ampiamente condivisa. La condivisione di un tale strumento, assolutamente libero di produrre ricerca scientifica, rappresenterebbe anche un primo passo dell'altrettanto necessaria riorganizzazione del sistema della rappresentanza.
E' con questo spirito che cedo la parola al Prof Diamanti per la sua relazione .

Prof. Ilvo DIAMANTI, Laboratorio di Studi Politici e Sociali (LaPolis), Istituto di Sociologia dell'Università di Urbino. Ringrazio il Presidente Minardi, ringrazio il Consiglio regionale dell’invito e dell’attenzione che presterà a questa che non sarà una relazione organica e strutturata sul rapporto fra società e istituzioni nelle Marche quanto — questo è ciò che mi è stato richiesto a suo tempo dal Presidente Minardi, questo è ciò che sono in grado di fare — una riflessione su come un osservatore partecipante della realtà e della società marchigiana quale io sono — lavorando in una università marchigiana, quella di Urbino da ormai 14 anni e vivendo nelle Marche, per scelta, per molti mesi ogni anno per la qua qualità della vita — vede, percepisce, riesce a delineare, a definire. Sento già delle polemiche localiste sul luogo in cui vivo nelle Marche: questo già a premessa del problema delle Marche, di questo essere le Marche una sorta di arcipelago, una “piccola patria di piccole patrie”.
Ovviamente farò riferimento alle questioni dello sviluppo territoriale, del rapporto tra territorio e politica in Italia, in cui le Marche giocano un ruolo anche abbastanza interessante, ma soprattutto alle indagini che il Laboratorio di studi politici dell’Università di Urbino che dirigo, “Lapolis”, conduce ormai da un anno per il Consiglio regionale su diversi piani: sul piano del rapporto tra cultura, politica e territorio già presentato, un altro sull’opinione pubblica e il senso civico della popolazione, di cui è stata presentata qualche mese fa la prima edizione e di cui condurremo una seconda edizione appena passata l’estate, e adesso, sulla base di altre due indagini, una delle quali praticamente conclusa, sulle politiche d’integrazione, infine quella in svolgimento sulla demografia, sulle tendenze demografiche e, ovviamente, le politiche locali.
Mi sarebbe più facile, come ho fatto anche in occasioni precedenti, cercare di tracciare un quadro così come emerge dalle ricerche, ma ho fatto mia la sollecitazione del Presidente, ho tentato di ricondurre ciò che emerge da queste ricerche e da altri studi, da altre ricerche all’interno di alcune chiavi di lettura che i presenti in parte potranno condividere, che per alcuni possono essere anche scontate, ma che comunque a me sono state utili a rispondere a un primo quesito, cioè: esiste uno specifico regionale dal punto di vista delle Marche? Le Marche, nel panorama italiano, dal punto di vista del rapporto fra economia, società e politica definiscono un caso specifico? In secondo luogo, la caratterizzazione — ammesso che questa emerga — o la non caratterizzazione delle Marche nel prossimo futuro, cosa prefigura? Che destino? Che cosa possiamo, dobbiamo, attenderci da ciò che sta avvenendo, dal modo in cui si sta evolvendo la caratterizzazione delle Marche? Questi sono i quesiti che mi sono posto e a cui ho tentato di dare alcune risposte. Spero che queste risposte vi siano di qualche utilità. Certamente, essendo oggi una sessione comunque di confronto fra il Consiglio regionale e la società civile delle Marche, almeno servirà come primo intervento per altri interventi che su questo stesso tema altri soggetti autorevolissimi hanno preparato e faranno.
Partiamo da un quesito: le Marche come si collocano su scala nazionale, nel panorama del rapporto fra società, politica e territorio, fra società ed economia? Le Marche cosa sono, come sono?
Normalmente noi che siamo abituati a studiare la società nella sua complessità, di solito siamo tentati di fare sintesi, e io ho cercato all’inizio, partendo dalle molte informazioni che ho raccolto, di fare sintesi. La sintesi buona è normalmente data da una formula: tutti noi sappiamo che un libro, una ricerca, uno studio servono ad articolare un problema, ad approfondirlo, a mostrarne le specificità, le differenze, però un buon libro, una buona ricerca funziona se ha un buon titolo, non solo per ragioni di marketing, perché il titolo, normalmente ti dà la chiave di lettura. Se il titolo è buono, è efficace, vuol dire che tu nei hai tirato fuori una buona chiave di lettura, sei riuscito a comunicare. A volte il titolo è talmente forte che il problema è opposto: è talmente suggestivo che ti impedisce di vedere la complessità della realtà che intende indicare. Però, normalmente cerco, sia all’inizio quando c’è bisogno di delineare delle ipotesi di lavoro, sia alla fine quando si tratta di tirarne le conclusioni, di vedere se riesco a riassumere con una frase sola — questo chiedo ai miei colleghi, ai miei collaboratori — di dire cosa c’è dentro tutta questa realtà. Ebbene, se penso alle Marche e a questo tentativo di riassumere, di costruire la realtà sociale, il rapporto fra società ed economia delle Marche, fatico molto. Certo, voi penserete “sei qui da dieci anni, cosa vuoi riuscire a cogliere rispetto a noi che siamo qui da sempre?”. Non è vero: a volte come osservatori disincantati si riesce a vedere meglio le cose. Eppure riesco a delineare le Marche soltanto con mezze definizioni oppure con degli ossimori. Ad esempio, se dovessi cominciare e riassumere la mia lettura del caso delle Marche direi che si tratta di un caso di “localismo nazionale”. Non vorrei dire “nazionalista” perché lo caricherei di significati ideologici che non intendo dare a questo termine. Oppure di un caso di spirito autonomista senza conflitto nei confronti del centro. Oppure — e questa è forse la definizione che spiega bene la linea di lettura che tendo a dare, che cerco di proporvi in questa riflessione contenuta nei tempi — una società e una regione media ma non centrale, che definisce sia la collocazione sia la caratterizzazione da un punto di vista geoterritoriale e geosociale, ma anche la sua posizione nel sistema istituzionale, nel contesto politico nazionale. Mi verrebbe da completarlo: una regione media ma non centrale e non centrata.
Non sono invece d’accordo, anche se capisco che ha un significato diverso, sulla definizione che il prof. De Rita dà di società densa”. Per me è una “società sparsa”, è una popolazione sparsa e dal punto di vista anche dei poteri è un’area sparsa. Socialmente densa, certamente, ma territorialmente sparsa, dove la densità è localizzata, policentrica. E’ una sorta di piccolo arcipelago.
Provo adesso ad argomentare queste che sono delle ipotesi di lavoro e anche a vedere cosa implicano, nel bene e nel male. Infatti, quando mi hanno chiesto di dare un titolo alla relazione ho giocato sull’idea del mezzo, della realtà media. Ho detto “mi chiedo i vizi e le virtù di chi sta nel mezzo”. Stare nel mezzo non sempre è una virtù, può anche essere un problema; stare nel mezzo può significare avere una possibilità di mediare, significa essere esposti alle pressioni esterne; se non si ha capacità di autoregolazione, se non si ha identità forte stare nel mezzo può significare ritrovarsi centrifugati, può significare essere attratti da altri poli di riferimento, da altre tendenze, da altre tensioni; può significare anche essere aperti, non soltanto in termini positivi ma anche alle tensioni, ai problemi, ai conflitti, ai mutamenti non sempre positivi e non sempre favorevoli che emergono dall’esterno. Cioè, “stare nel mezzo”.
Quando dico che questa è una regione media, che sta nel mezzo ma non una regione centrale, intendo anzitutto fare riferimento all’importanza che ha, almeno nella mia concezione, la collocazione territoriale. Da sempre io ho grande attenzione all’importanza che hanno gli aspetti geopolitici, geoeconomici, perché la geografia ha una sua rilevanza nel definire le vocazioni di un contesto, tanto più se la geografia riesce a essere spiegata e a sua volta a spiegare una determinata struttura sociale e una determinata collocazione, definizione politica. Proprio per questo, se dovessi definire le Marche direi che essere una posizione di mezzo ne spiega bene, in qualche modo, le caratteristiche. E’ una posizione di mezzo dal punto di vista geografico tra nord e sud, ma nonostante gli Appennini, anche tra est e ovest. Questa è una direzione che viene normalmente trascurata più che altro a causa dei modelli di riferimento, dei modelli interpretativi che hanno in qualche modo incluso le Marche, però è importante. Le Marche vanno poste non soltanto sull’asse nord/est-Puglia, ma anche sull’asse Adriatico-Roma, con lo Stato centrale. Ciò che rende interessante, utile l’idea della regione di mezzo è che in realtà le Marche sono mediane o periferiche rispetto a tutti i principali tentativi di articolare e di spiegare l’economia, la società e la politica, in Italia, su basi territoriali. Certo, sono nel mezzo quando parliamo della classica frattura nord-sud, sono l’ultima regione del nord, quindi quella più vicina al Mezzogiorno; però se facciamo riferimento alle principali definizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo e la lettura dello sviluppo in Italia negli ultimi 30 anni vediamo che le Marche ne rappresentano una zona implicita, scarsamente tematizzata. Partiamo da quella più classica, la “terza Italia”, l’Italia che si distingue e si specifica dalla “prima” e dalla “seconda”, tradizionalmente individuate, il nord e il sud. La “terza Italia” coincide, in buona parte, con l’altra definizione più di carattere economico che è stata elaborata qui ad Ancona nella scuola di Fuà, quella della NEC, cioè l’economia del nord-est-centro.
Ebbene, rispetto a queste due definizioni — NEC e “terza Italia” — in qualche modo le Marche costituiscono l’area, la zona che presenta in modo “debole” i caratteri dominanti di queste zone. Debole dal punto di vista della forza del sistema locale. Sappiamo bene quali sono le caratteristiche di queste due definizioni: la piccola e la piccolissima impresa soprattutto, che fondano l’economia; una tradizione agricola di piccola proprietà, oppure — la scuola di Ancona, Paci, lo stesso Ascoli hanno detto molto sul rapporto con lo sviluppo locale — la mezzadria, o altrove la fittavolanza. Realtà, cioè, di economia sparsa, nella quale il ruolo della famiglia, il ruolo della tradizione diventa un fattore di innovazione e di continuità. Però, sotto questo profilo le Marche rappresentano una versione debole di ciò che avviene in Emilia Romagna o nel nord est.
L’ultima e più rilevante definizione dal punto di vista socioeconomico è quella che tende a dare rilevanza, nello sviluppo territoriale italiano, all’asse non tanto nord-sud, ma est-ovest: è l’idea di “modello Adriatico”. In questo caso le Marche sono una gradazione, definiscono una sorta di gradazione di questo modello che via via che dal nord si va al sud stempera alcuni caratteri e ne accentua altri, stando a metà, in questo caso, fra il Veneto e la Puglia.
E’ interessante come questi modelli improntino anche l’identità delle persone. Io ho insegnato per molti anni sociologia urbana a Urbino e uno dei giochi che facevo all’inizio con i miei studenti per mostrare loro come sia importante il territorio, la definizione territoriale per dare identità e per dire cose che vanno oltre la semplice collocazione sul territorio era “ma voi dove abitate?”. Non “dove abitate” dal punto di vista locale: per metà venivano dalla zona che sta fra l’Abruzzo e la Romagna, gli altri venivano anche da più lontano, da nord a sud. Dicevo loro: “rispetto a queste definizioni, dove vi mettete?”. La tentazione normale di tutti gli studenti era che via via che la loro residenza si spostava a sud, loro spostavano a sud la definizione di “sud”, cioè abitavano sempre a nord. Anche coloro che venivano dall’Abruzzo tendevano a dire “il sud comincia dopo”. Questo era un gioco impossibile per chi abitava nella Puglia, e allora il sud per coloro che abitano in Puglia comincia ad ovest. Noi siamo il “modello Adriatico”.
Come vedete, alla fine dare delle definizioni di un contesto territoriale serve anche a dire se questo contesto ha una identità, che posizione ha nelle logiche delle dinamiche dello sviluppo, ma anche nelle logiche delle dinamiche del potere all’interno di un contesto, in questo caso il contesto nazionale ma non solo.
Le Marche, il loro essere società di mezzo, il loro stare nel mezzo cosa significa sotto questo profilo? Intanto cosa significa, se vogliamo riempire di qualche altro contenuto, questa idea dello stare nel mezzo? Tenete conto che le Marche stanno nel mezzo anche rispetto alla più tradizionale delle articolazioni territoriali dal punto di vista politico, quella che individua nell’Italia due zone instabili, il nord-ovest e il mezzogiorno e due zone stabili, il centro e il nord-est, definendo quelle del nord-est zone “bianche”, a tradizione cattolica e poi democristiana (ma quella è una definizione che oggi ovviamente non vale più) e le zone del centro zone “rosse”. Le Marche normalmente sono definite come zone “rosse”, zone di sinistra. E anche qui possiamo vedere che non è vero, perché sono zone di mezzo, zone distinte. Potremmo dire per il passato “bianco-rosse” e oggi a orientamento fortemente differenziato”.
Veniamo a quello che dicono le indagini, non solo quelle che ho fatto io, circa questo aspetto, cioè se lo stare nel mezzo sia una virtù e cosa significa. Stare nel mezzo certamente si fonda, per quel che riguarda le Marche, su una caratterizzazione che fa delle Marche una sorta di mix di nord-est “terza Italia”, ma in qualche caso anche di centro, inteso come regioni centrali, regioni a tradizione civica, regioni centrate non soltanto sull’asse nord-sud ma sull’asse est-ovest, quindi centrate anche sul loro rapporto con lo Stato.
Sappiamo — l’ultimo censimento lo conferma — che le Marche sono una economia diffusa di piccola e piccolissima impresa. Il peso della piccola impresa e il numero di aziende per abitante pone tutte le province marchigiane molto al di sopra della media nazionale ma al di sopra del nord-est, al di sopra dell’Emilia. Questa non è un’economia diffusa, questa è un’economia sparsa, una realtà nella quale ben oltre 10 persone su 100, in quasi tutte le province sono titolari di una ditta, hanno una partita Iva, hanno un’identità professionista o imprenditoriale. Questo è un aspetto che trovate anche nella vocazione sociale. Una cosa evidente dall’indagine che noi stessi abbiamo fatto e che mi ha molto colpito è che la vocazione professionale autonoma o di lavoro autonomo nella popolazione delle Marche è superiore a quello che si riscontra in quella che è la regione considerata ideal tipica sotto questo profilo, cioè il Veneto, ma anche molto superiore all’Emilia Romagna. Questo vuol dire che più del 60% delle persone che risiedono nelle Marche ritengono che la loro vocazione, il lavoro ambito per quel che le riguarda sia — ovviamente con le debite distinzioni sociali — fare il lavoratore autonomo, l’imprenditore oppure il libero professionista. Più del 60% significa, nell’insieme, il 5% in più rispetto a quello che ci dicono le indagini sul Veneto, il 10% in più rispetto a quello che ci dicono le indagini relative all’Emilia Romagna.
In questo caso abbiamo un orientamento sociale che riflette la struttura socio-economica, una sorta di imprenditorializzazione o micro-imprenditorializzazione culturale che riflette sotto questo profilo la struttura sociale.
L’altro elemento forte che conferma la connotazione diffusa e sparsa delle Marche, questo essere l’anello estremo della cosiddetta “terza Italia”, una versione estrema del nord-est situato nel centro del Paese, è ovviamente la diffusione residenziale e la diffusione demografica.
Questa è una regione in cui una sola città supera i 100.000 abitanti, in cui ci sono oltre 200 comuni la cui media è molto bassa e sotto questo profilo si specifica in modo abbastanza netto anche rispetto a una realtà come il centro-nord/est, che comunque è una realtà dove non ci sono le capitali. Sappiamo che se c’è una caratteristica del centro-nord/est è che si tratta di una realtà nella quale ci sono molte piccole città ma non c’è nessuna città che “governa” il territorio. Se facciamo riferimento al modello del nord-est, il nord-est ha una capitale diffusa: Venezia è un riferimento storico acquisito, accettato; Venezia non è accettata come riferimento e come capitale dal nord-est. La stessa cosa può essere per Trieste o per Trento. Questo si può dire anche per le Marche. Le Marche sono un territorio dove è difficile anche identificare i “capoluoghi provinciali”. Pur essendo la distinzione tra province, assieme alla distinzione entroterra-costa una tra le poche che definisce le differenze di orientamento di popolazione, anche all’interno delle province le differenze sono molte.
Pensavo e speravo oggi di arrivare con una mappa sociale, che definisse i tipi di popolazione e gli orientamenti della popolazione: fare un’analisi dei gruppi che, a partire dagli orientamenti delle persone, riuscisse a definire e a distinguere la popolazione in gruppi stabili, omogenei. Non ci sono riusciti, non per cattiva volontà e credo neanche per cattiva professionalità mia e dei miei collaboratori; semplicemente perché il numero di gruppi che emerge da questa analisi è troppo ampio, troppo esteso, non esistono fratture nette che distinguano la popolazione, non esistono delle “province socio-culturali” molto definite, esistono una pluralità di orientamenti distinti, che sono in parte interni alle province date e in parte no. Una realtà-arcipelago, una realtà sicuramente ad alto tasso di diffusione.
La diffusione urbana non è da definirsi come un vizio. Una delle spiegazioni della vitalità dell’economia della società è data dal fatto che qui non esistono grandi città ma molti piccoli centri, quindi la funzione urbana è sparsa sul territorio. Altre funzioni importanti, che producono modernizzazione e crescita, ad esempio quelle della ricerca della cultura, qui sono garantite dall’esistenza di un numero molto alto di università che sono piccole soltanto se riferite alle città che le ospitano e a cui sono collegate. Invece in molti casi sono anche grandi per numero di studenti o per realtà espresse dal punto di vista scientifico, quindi tante piccole città, tante piccole università, tante piccole e piccolissime imprese, addirittura imprese che vengono definite tali ma sono persone che si fanno imprese, uomini-impresa, famiglie-impresa, soggetti-impresa. Questa è la connotazione che fa delle Marche una sorta di iperbole della parabola dell’economia diffusa e della “terza Italia” cui fanno riferimento gli studi, le ricerche, le definizioni. L’indicazione è “volete vedere un esempio di terza Italia, di economia diffusa allo stato puro? Venite nelle Marche”. Ne troverete anche i sintomi dal punto di vista socio-culturale.
Però le Marche non sono solo questo, le Marche come società di mezzo portano con sé una serie di elementi che sono singolari, sono quasi una contraddizione, appunto un ossimoro rispetto a questo, soprattutto se le paragoniamo alle altre regioni di “terza Italia”, non soltanto il Veneto, anche l’Emilia Romagna.
Il primo elemento che emerge è che questo localismo, che ritroviamo anche dal punto di vista dell’identità. Tenete conto che il grado di identificazione nella città, nel contesto locale, nelle Marche è altissimo, superiore anche al nord-est, cioè ci si riconosce anzitutto nella propria città, meno nella regione — e qui sta la contraddizione — rispetto sia all’Emilia Romagna, sia all’Italia. Da ciò la definizione che esprimevo prima: un caso raro e singolare di “localismo nazionale”. Si è cittadini della propria città e si è cittadini italiani. Anzi, c’è una forte vocazione europea e cosmopolita in questa realtà. E’ quasi maggiore il numero di persone che nell’insieme si dicono “europei” come autodefinizione e/o “cittadini del mondo” che “marchigiani”. Meglio dirsi “pesaresi”, “anconetani”, “ascolani”, “fermani”, “maceratesi” e poi via via scendendo, perché ogni centro ha la sua periferia che tenderà a contestarne la centralità.
Questo non vuol dire che nei confronti della Regione ci sia un atteggiamento ostile, anzi il gradimento circa l’istituto, l’azione della regione è molto elevato e soprattutto una delle caratteristiche specifiche di questa realtà regionale è che la gente pensa di vivere uno stato di benessere alto: è molto alta la quota di persone che dice di vivere bene, di stare bene in questa regione; non solo, che pensa che in questa regione si viva meglio rispetto alle altre regioni con le quali si tende a fare comparazione. C’è quindi un forte atto di soddisfazione, un forte grado di riconoscimento del contesto regionale, però questa è una realtà in cui il dato nazionale pesa e conta molto. Ci si riconosce nella città e ci si riconosce nello Stato nazionale: cittadini della propria città e italiani. Poco federalisti. Basso grado di adesione ai modelli che spingono il dato dell’autonomia a livello regionale come uno dei progetti di riferimento.
Certo, più poteri alle regioni, ma in un contesto che, almeno nella percezione delle persone dovrebbe essere di integrazione.
Questo è un dato che caratterizza molto le Marche rispetto non soltanto al Veneto ma anche all’Emilia Romagna. Sia in Veneto che in Emilia Romagna il regionalismo è piuttosto forte e produce comunque un buon grado di conflitto nei confronti dello Stato centrale, percepito dalle stesse persone. Questo è estremo e si è tradotto anche in manifestazioni di protesta visibile all’interno del Veneto, ma è tradizionalmente percepito anche in Toscana e in Emilia Romagna. Sia i toscani che gli emiliani vedono i propri interessi distinti, in qualche modo anche confliggenti nei confronti dello Stato. Essere conflittuali nei confronti dello Stato è anche uno strumento per diventare meno periferici, per acquisire centralità, per cui è evidente che il nord-est ha acquisito centralità nel dibattito, quanto meno politico, sociale, economico, nazionale e non solo, confliggendo con lo Stato centrale. L’essere un luogo conflittuale, un luogo rivendicativo è servito ad acquisire identità, forza, visibilità e peso.
Un altro elemento che può apparire contraddittorio rispetto a quanto abbiamo detto fin qui, è che questa è una realtà molto vocata al privato, ma che tutto sommato chiede un aumento dell’intervento pubblico: microimprenditoriali, assolutamente orientati al sentimento privatistico, autonomistico dal punto di vista del mercato del lavoro, localisti dal punto di vista dell’identità territoriale. Rispetto alla media nazionale, soprattutto a un’area come il nord-est, con un grado di soddisfazione nei confronti dei servizi pubblici molto elevato. Anche dal punto di vista dei sistemi di riferimento, dei contesti nei quali non ci si riconosce ma dai quali ci si attende tutela rispetto a quanto dice un’indagine nazionale che conduco ogni anno con lo stesso quesito, la cosa evidente è che nelle Marche ci si attende, proporzionalmente, molto di più, ci si affida molto di più ai servizi degli enti locali e ai servizi dello Stato. Ci sono indici doppi nelle Marche, rispetto a quelli medi nazionali.
Bisognerebbe tentare di spiegare quanto sto dicendo adesso, cioè come è possibile essere allo stesso tempo localisti e in qualche modo centralisti, identificati nel contesto locale e nello Stato, nella propria città senza che questo produca sintomi di indebolimento rispetto al contesto nazionale, come è possibile allo stesso tempo vedersi ed essere piccoli imprenditori, una società di formiche che lavora, di piccoli produttori che però vede con ostilità la perdita di peso dello Stato e soprattutto che vede con sospetto e dispetto la riduzione dell’intervento pubblico. Questo essere nel mezzo rispetto a tendenze e tensioni che altrove sono considerate invece alternative.
Forse una spiegazione — qui c’è l’altra chiave di lettura che do e che, mi perdonerete, è povera come quella iniziale, perché ci vuole poco a dire che le Marche sono una regione di mezzo — è che le Marche sono una regione piccola. La dimensione, in questo caso è rilevante. Le Marche sono una regione di mezzo e sono una regione piccola. Cosa implica l’essere una regione piccola? Mettete assieme queste cose: una regione di mezzo, una regione diffusa, una regione sparsa e piccola. Questo spiega in buona parte molti aspetti positivi, ad esempio spiega il grado di soddisfazione sociale: nel contesto piccole le tensioni del mondo esterno, le contraddizioni tipiche della crescita demografica delle grandi città vengono controllate maggiormente. La dimensione piccola spiega il peso che hanno i servizi pubblici a livello locale: sono servizi locali e la loro diffusione sul territorio fa sì che esista una connessione molto stretta tra l’economia, l’ente locale, il governo locale. Esiste quindi un grado di integrazione reciproca abbastanza forte. La dimensione piccola certamente spiega la tenuta di organismi, di istituzioni tradizionali (la famiglia, le reti di vicinato, le comunità) ma anche, allo stesso tempo, la percezione dello Stato. La dimensione piccola tende a rendere difficile pensarsi distanti e pensare all’autonomia come separatezza. E tuttavia — qui vado ai vizi, ai problemi di chi sta nel mezzo ed è piccolo — la dimensione piccola associata alla diffusione e alla posizione di mezzo produce anche tutta una serie di problemi che oggi si cominciano a percepire e recepire. Certo, la dimensione piccola fa sì che ci sia una sfasatura tra gli indici oggettivi e strutturali che riguardano il benessere e la qualità della vita e quelli soggettivi di percezione. Ormai sono due anni che tutte le principali graduatorie che stimano il benessere e stimano la qualità della vita nelle Marche mettono le province marchigiane in picchiata, sottolineano una perdita di posizioni molto forte. Vi sono due quotidiani economici che normalmente realizzano, ogni anno, queste graduatorie, a uno dei quali ho collaborato: Sole 24 Ore e Italia Oggi. Le Marche, in modo diverso a seconda dei diversi indicatori, delle diverse province costituiscono l’area che ha perduto maggiormente posizioni negli ultimi due anni. E’ abbastanza interessante che i dati che penalizzano maggiormente le Marche, comparativamente, negli ultimi anni, sono quelli che riguardano la sicurezza. In parte l’ambiente per quel che riguarda la viabilità, ma soprattutto la sicurezza. L’idea dell’”isola felice” maturata e consolidata nel corso del tempo, oggi è contrastata da una crescita dei reati comuni e soprattutto quelli alla proprietà privata, i piccoli reati che pesano di più, che alla gente, da un punto di vista di sicurezza personale generano molta più preoccupazione. I grandi reati fanno parlare i giornali, i piccoli reati rendono inquieti tutti, e soprattutto i reati contro il domicilio, i furti o i furti alle cose.
Questo è il primo dato che emerge. Quest’area è un’area di mezzo, per essere un’area di mezzo è un’area piccola e un’area esposta. Oggi è un’area esposta, un’area aperta che, in quanto tale, si apre non soltanto agli influssi positivi ma anche alle minacce che vengono dall’esterno.
L’essere una società piccola, integrata fa sì che questo sia percepito ancora poco, per cui gli indici di soddisfazione delle persone e la percezione della sicurezza sono ancora superiori, sono ancora alti. Tenete conto che però è difficile pensare a uno squilibrio per troppo tempo, fra questi due indici, cioè quando i dati oggettivi, quando i dati di struttura segnalano un deterioramento della qualità della vita prima o poi la gente se ne accorge. E quando i media parlano in modo crescente del deterioramento della qualità della vita e degli indici di deterioramento della qualità della vita la gente prima o poi se ne accorge, lo viene a sapere e comincia a guardare se stessa e l’ambiente che la circonda con occhi diversi.
Essere una realtà piccola e diffusa in un contesto di forte apertura dell’economia e di interdipendenza dei flussi demografici produce effetti anche sotto diversi livelli. Questa è una delle realtà che ha registrato il più alto tasso di crescita di immigrazione su base nazionale. L’immigrazione necessariamente genera inquietudine — è un fatto nuovo — tanto più nei contesti piccoli che sono abituati ad essere “chiusi”. Ma dal punto di vista economico questa è una realtà in cui comincia ad essere evidente lo scarto fra peso crescente della piccola impresa e delle attività di piccola impresa e reddito, prodotto interno lordo. E’ sottodimensionato il prodotto interno lordo per abitante, è sottodimensionato il reddito per abitante in questa regione. Questa è un’economia molto estesa, che necessariamente produce ricchezza in modo diffuso, quindi con un dinamismo, oltre che diseguale all’interno, meno evidente e meno forte rispetto non solo alle aree del nord-est ma ad alcune altre regioni che vengono considerate a sud rispetto a molte province dell’Abruzzo.
Vorrei sottolineare un altro aspetto che in questo caso definisce uno specifico di questa realtà. Una cosa interessante è che tutti gli indicatori di qualità della vita danno come elemento positivo e specifico di questa regione su base nazionale la spesa in attività culturali e di tempo libero. Questa è una realtà che in buona parte deve la propria percezione di qualità della vita anche a una buona consuetudine di rapporto con il temo libero. In questo è poco nord-est, ve lo dice uno che conosce bene quell’area e ne è in qualche modo partecipe. E’ più vicina all’immagine che c’era del nord-est un tempo. Lasciate che racconti, prima di concludere, un aneddoto: una decina di anni fa cominciai a veder arrivare in Veneto un sacco di giapponesi, non quelli con la macchina fotografica che si vedono sempre dappertutto e non sono in vendita, ma studiosi giapponesi che venivano a studiare l’economia locale. Cominciai, in quella fase, un rapporto di studio incrociato comparato, anche interessante. Uno di questi miei colleghi, eminente, Hajime Kobayashy dell’università di Sapporo, un sociologo dell’economia, a cui un giorno chiesti “spiegatemi voi giapponesi con l’immagine che abbiamo noi di voi, della vostra economica perché vi state precipitando in Veneto a studiare l’economia veneta. Cosa vi incuriosisce?”, mi rispose — semplifico la risposta — “veniamo a vedere un posto dove si lavora come giapponesi e ci si diverte da italiani”. La mia impressione è che oggi nel nord-est ci si diverta da giapponesi; nelle Marche ci si diverte ancora da italiani, c’è ancora una connessione tra lavoro e vita, tempo di lavoro e di non lavoro, “gratificante”.
Vorrei tirare le fila di tutto quello che ho detto. Una situazione di questo genere che problemi pone? Che problemi ha una realtà di mezzo che allo stesso tempo è molto diffusa, molto sparsa, una realtà che allo stesso tempo è certamente molto dinamica, ma ha una capacità di dinamismo e di produzione di reddito più bassa di altre aree del nord, una realtà nella quale l’apertura all’esterno produce crescenti indici di malessere per ora poco percepito ma rilevabile da tutti gli indicatori empirici? Una realtà come questa che allo s tempo ha forte spirito di iniziativa privata ma anche domanda di protezione pubblica e di integrazione con il sistema pubblico? Una realtà che come questa è al centro di molti flussi e quindi non solo è una realtà di mezzo ma una realtà in mezzo a molte tensioni e a molti flussi crescenti, non soltanto di opportunità ma di minacce e di rischi?
Ebbene, una realtà di questo genere che cosa ci dice in termini di prospettiva? Una prima indicazione che a me emerge è che c’è davvero il rischio di essere, in una fase come questa, una realtà in cui l’essere in mezzo significa essere una società di passaggio, un contesto di passaggio, non “all’incrocio di”. Stare nel mezzo può significare essere un punto di incrocio che connette tendenze diverse, le annoda, le gestisce, le governa in termini di qualità, ma può anche significare essere ai margini, un luogo di passaggio. E’ un problema di posizione ma anche di atteggiamento, di capacità di governare questi processi, di capacità di autodefinirsi, di capacità di relazionarsi. Si può essere un punto di passaggio di una strada nella quale nessuno si ferma ma ti trasferisce tutte le sue tensioni e si può essere il punto di passaggio di molte strade che sono costrette a fare i conti con te perché tu, comunque, diventi un nodo rilevante.
Però, il problema della società dei piccoli o della società di mezzo, della regione piccola che sta in mezzo è quello di essere comunque un attore capace di interloquire, di interagire, di rapportarsi, di rivendicare, allo stesso tempo — ha detto De Rita — di organizzare internamente le realtà locali, riorganizzarsi dal basso. Ve lo dico in altri termini: annodare i piccoli punti che rappresentano questo arcipelago e allo stesso tempo andare oltre il limite di essere piccoli nel rapporto nei confronti con l’esterno. L’essere piccoli nei confronti dell’esterno in tempi di crescente federalismo è un limite, anche se all’interno hai molte ricchezze che ti permettono di autoregolarti. Però nei confronti dell’esterno il federalismo ha sempre una dimensione competitiva interregionale. E’ una competizione fra sistemi locali, dove fai pesare le tue risorse. La demografia è una risorsa, la massa dal punto di vista economico è una risorsa, tu conti e pesi se hai molte imprese in assoluto o se hai molti abitanti quindi molti voti in assoluto. Quando hai un tasso alto di imprese, ma non molte imprese; quando hai un reddito elevato, ma sul peso del reddito nazionale comunque limitato e non hai neanche molti voti da spendere sul piano della concorrenza su scala nazionale rischi di essere “debole”, quando il problema è anche quello di rivendicare spazi e risorse nella ripartizione, nella redistribuzione su scala nazionale.
Tenete conto che una delle caratteristiche di questa realtà regionale è anche quella che c’è la percezione di una grande partecipazione e presenza associativa, però il fatto che sia articolata su molti contesti locali fa sì che il peso della partecipazione associativa sulla popolazione sia mediamente più basso rispetto alla media nazionale. E’ evidente che le persone partecipano anche senza associarsi; è evidente che le persone ottengono servizi anche senza bisogno delle associazioni che altrove sono diventate vere e proprie istituzioni parallele. Però voi sapete che l’associazionismo è uno strumento di integrazione, di costruzione della democrazia, uno strumento di potere. Avere associazionismo, un associazionismo organizzato significa avere una società civile forte che partecipa al governo della società.
La piccola dimensione ti espone nella competizione con il centro, con lo Stato, e ti espone anche su base interna, perché la piccola dimensione e una realtà con molte realtà di piccole dimensioni è difficilmente regolabile all’interno, è difficilmente in grado di rivendicare e competere nei confronti dell’esterno.
La piccola dimensione ti rende più esposto ai processi che vengono dall’estero, perché la piccola dimensione non può più coltivare l’illusione della chiusura, nessuno, neanche i molti comuni dell’entroterra.
Normalmente vengono evocate tre ipotesi. Ve le propongo perché sono le ipotesi tipiche che vengono discusse da tempo nei laender piccoli, in Germania, nei piccoli comuni in Spagna che hanno il problema dell’autonomia e nello stesso tempo del rapporto con lo Stato.
C’è una prima soluzione che normalmente viene spesa, ed è quella di aggregarsi. Una regione con 1.200.000 abitanti è piccola, una città diffusa con 1.200.000 abitanti è grande, per cui ci sono processi, tendenze, proposte, ipotesi di passare dalla regione piccola — non parlo per le Marche — alla grande città metropolitana, alla metropoli diffusa. Immagino che vi venga da ridere, vista la struttura territoriale e l’organizzazione territoriale delle Marche, ma questa è una delle ipotesi che normalmente viene pensata.
La seconda è quella dei legami interregionali e, ovviamente, interlocali: costruire delle entità intermedie. In tempi di federalismo ve ne accorgerete: l’essere piccoli è un problema, non è solo una risorsa. E allora andare oltre i limiti della regionalità significa costruire cartelli, gruppi, network, macroregioni. So che circola l’idea di “Centronia”: bisogna stare attenti a non diventare da piccola regione a provincia minore di un’area intermedia, perché forse è peggiore questa seconda soluzione. L’alleanza con altre regioni è però un’altra strada da battere.
La terza ipotesi che normalmente è intermedia e preliminare a entrambe è quella che comunque sottolinea l’importanza — uso slogan, ma il tempo non mi permette di fare differentemente — di passare da una “regione-arcipelago”, fatta da microisole, a una “regione-rete” nella quale — senza aggregare i servizi sanitari, le imprese, i luoghi di formazione, le università — si esaltino le connessioni (la progettazione comune, l’istituzione di istituzioni di connessione). Quindi si valorizzano le logiche del network rispetto a quella della concorrenza e della competizione. Questo è il problema: non solo una regione come questa è piccola, è fatta di piccole entità, ma le piccole entità tendono a riprodursi e ad agire in concorrenza l’una con l’altra, quindi non facendo massa critica nei confronti dell’esterno e non generando coesione all’interno.
Se si volesse usare uno slogan, invece di diventare semplicemente una strada si dovrebbe diventare un incrocio, invece di diventare una massa puntiforme un insieme di nodi che possono costruire una rete. Ma detta in altri termini, invece di diventare il porto che da Roma o dal nord-est porta ai Balcani, si diviene la realtà che gestisce la comunicazione con l’est, con i Balcani, si smette di essere l’est dell’Italia ma il centro delle relazioni tra Roma e i Balcani, si smette di essere il punto intermedio dell’autostrada che da Venezia o da Milano porta a Taranto e si diviene lo snodo che in qualche modo riesce a interloquire con il nord e con il sud. Si smette di pensarsi come dei piccoli che, tutto sommato, vedono in questo un elemento di forza e si pensa che essere piccoli è un elemento di forza se si pensa e si agisce in grande.

PRESIDENTE. Grazie al prof. Diamanti per i numerosi spunti che ha lasciato alla nostra discussione. Credo che continueremo per diverso tempo a discutere di questa relazione.
Do la parola a Carnaroli, sindaco di Fano e presidente della Lega delle autonomie locali.

Cesare CARNAROLI, Lega delle Autonomie locali. Concordo totalmente con quanto detto dal prof. Diamanti che non ci sono dubbi sul fatto che siamo una regione di mezzo. Tutti i dati che ci sono stati forniti attraverso le indagini svolte dall'Università di Urbino per conto del Consiglio regionale indicano le Marche come un territorio che non può essere inquadrato precisamente né sul piano politico né sul piano delle aspirazioni e dei comportamenti. Regione del centro Italia ma non assimilabile pienamente alle altre tre regioni “rosse “sul piano politico. Ha sviluppato nel corso degli anni una impresa diffusa paragonabile a quella della direttrice Adriatica ma i sentimenti e le aspirazioni sono molto diverse rispetto alle popolazioni del nord-est. Al proprio interno le Marche poi sono diversificate nei comportamenti elettorali, nel rapporto con le istituzioni, dove le province di Pesaro e Urbino ed Ancona hanno elementi di maggiore omogeneità rispetto a Macerata e Ascoli Piceno. La ricerca sostiene l'ipotesi che la medietà, ovvero l'essere a metà strada tra realtà ben definite potrebbe rappresentare una grande occasione se la si utilizzasse per realizzare e costruire una propria identità e giocare un ruolo di cerniera tra le varie parti del paese. Vediamo se le cose stanno proprio così.
Nella nostra tradizione popolare stare in mezzo vuol dire prenderle di qua e di là, vuol dire non essere né carne e né pesce e la strada di mezzo è il punto di incontro di amori a pagamento. In sintesi e con parole più pertinenti lo stare in mezzo nella coscienza collettiva di questa regione è un sentimento indefinito, di ambiguità, di luogo della trasgressione. Le Marche in effetti sono una zona grigia poco identificabile, poco conosciuta e questa condizione che ci appartiene da secoli non sarà facile superarla se non attraverso un processo riformatore che per forza di cose avrà tempi lunghi ma che qualcuno dovrà pur iniziare.
Il punto essenziale in effetti è tutto qui: chi è questo qualcuno che dovrà assumersi la responsabilità di iniziare un percorso così difficile ma anche così necessario ed ambizioso se non la classe dirigente di questa regione?
Io che vengo da una città di mezzo, tra Pesaro e Urbino, senza una identità culturale e produttiva ben precisa come le due città poc'anzi citate (Rossini, Raffaello, distretto del mobile) posso dirvi che qualsiasi progetto di costruzione di identità non può avere successo se non vengono indicati con nettezza gli elementi portanti del progetto ma innanzitutto se non si trova una classe dirigente consapevole e solidale sul cammino da fare e sull'obiettivo da raggiungere. Potenzialmente le classi dirigenti esistono dappertutto perché esse sono composte da amministratori, uomini di cultura, imprenditori, professionisti, associazioni di categoria e tutto il meglio che una comunità può mettere a disposizione. Ma il momento in cui si diventa classe dirigente è quando si prende coscienza del ruolo che si deve svolgere e contestualmente si vogliono assumere fino in fondo i destini di una comunità che si vuole rappresentare . Tutto ciò non può essere pensato francamente in tempi brevi.
Ma ci sono altri elementi, indicati nella ricerca, che si devono assolutamente approfondire e rappresentano secondo la mia modesta opinione una conseguenza dell'essere una regione di mezzo. I nostri concittadini vivono in una condizione di preoccupazione per il futuro superiore a quelli del nord-est. Non può meravigliarci più di tanto una condizione del genere in quanto è del tutto logico che vivendo in una zona grigia, indefinita, di mezzo, ci siano meno certezze per il futuro e di conseguenza una maggiore insicurezza personale. Una insicurezza per il lavoro, per una occupazione stabile e dignitosa, all'altezza magari del titolo di studio in possesso, aggravata dalla presenza di una microcriminalità sempre più diffusa e aggressiva. In particolare rispetto a quest'ultimo elemento i nostri concittadini hanno percepito l'aumento del fenomeno criminoso, anche se meno grave rispetto ad altre regioni, dovuto innanzitutto a mutamenti politici ed economici avvenuti nell'est europeo e che hanno trovato nel porto di Ancona la grande porta verso l'occidente come si evince dalla relazione annuale del procuratore capo della Corte di appello del capoluogo dorico.
Un fenomeno complesso quindi strettamente legato alle attività portuali di import-export e del traffico passeggeri. Un fenomeno comunque ben inquadrato che attende di essere affrontato nei modi giusti. Un altro elemento della ricerca che merita attenzione è quella relativa alle aspirazioni occupazionali dei marchigiani. Il 58% degli intervistati risponde infatti di voler lavorare in proprio come imprenditore o come libero professionista. La cosa è di straordinaria importanza perché questo lascia ben sperare per il futuro del sistema marchigiano fondato sul sistema diffuso della piccola impresa con un rapporto di una azienda ogni dieci abitanti circa. Un elemento che metterebbe in crisi irreversibile il sistema sarebbe proprio quello di non aver più imprenditori locali con la conseguenza di dover cedere o chiudere attività che per il loro grande numero hanno sviluppato oltre alla condizione di flessibilità e di duttilità una capacità di specializzarsi e di occupare nicchie di mercato essenziali per mantenere alto il livello di competitività. Come andare incontro a questa domanda di mettersi in proprio da parte dei marchigiani? Fare in modo che sia innanzitutto la scuola a creare le basi culturali e formative per l'autoimprenditorialità. Nel quadro dell'autonomia scolastica di ogni Regione le Marche dovrebbero fare in modo che i propri licei ed istituti preparassero bravi cittadini prima di ogni altra cosa, ma anche persone formate e in condizioni di mettere su aziende come si dice comunemente. Da non sottovalutare inoltre il giudizio positivo che i marchigiani danno dei servizi pubblici a cominciare dalla scuola e dalla sanità. La nostra gente comprende perfettamente il ruolo che la salute e l'istituzione hanno avuto nello sviluppo complessivo della regione.
La salute e l'istituzione così come sono stati offerti alle nostre popolazioni nel corso degli ultimi 50 anni hanno rappresentato le pre-condizioni fondamentali per la realizzazione del sistema della piccola impresa diffusa. Si può pensare veramente che togliendo o riducendo uno di questi pilastri non ci siano in futuro contraccolpi fatali per il sistema Marche? Questo è il vero collante che ci tiene uniti da Urbino a S. Benedetto del Tronto.
Spezzato il filo che tiene insieme il corpo della società marchigiana questo si disperderebbe in mille rivoli e sotto ogni campanile riprenderebbero vigore particolarismi mai sopiti tali da rendere ingovernabile ogni borgo di questa regione e sarebbe la fine di ogni senso di appartenenza alla comunità regionale. La ricerca ci ricorda che la credibilità dell'ente Regione come istituzione è molto bassa presso i cittadini delle Marche per ragioni storiche, si intende, ma spezzato questo ultimo filo sarebbe persa totalmente ed in modo irrecuperabile. Qualsiasi ingegneria statutaria dovrà tener conto di questo DNA costitutivo della nostra gente altrimenti tutto sarà inutile. Tanto per essere chiari ogni identità che si vorrà fissare a questo territorio, a questa popolazione dovrà nascere e svilupparsi da questo humus di base.
Alcune considerazioni finali
Il poliformismo e la eccessiva frammentazione economica sociale ed istituzionale delle Marche rispetto ad una positiva funzione avuta in passato oggi sono di forte impedimento rispetto a processi di unificazione resisi necessari per rimanere competitivi dentro il mercato globale. Sul piano economico e sociale il nanismo delle imprese va superato convincendo le rappresentanze delle forze produttive ad intraprendere e sollecitare politiche volte a privilegiare chi tende ad associarsi ed a stare comunque dentro una politica di sistema. Sul piano istituzionale va incoraggiata la politica delle Unioni comunali intrapresa dalla Regione e fortemente voluta dal precedente governo di centro-sinistra.
La legge 265/99 che ha tolto il cappio delle fusioni obbligatorie ha permesso ai Comuni di avviare progetti di gestione di servizi per ottenere economie di scala ed una maggiore efficienza ed efficacia dei servizi stessi.
Tutto però nel segno di una gradualità e di una condivisione partecipata e vissuta degli enti locali e del popolazioni interessate. Non potranno esserci perciò cambiamenti radicali e capaci nel giro di poco tempo di produrre una forte identità della Regione Marche. Io suggerirei di tener conto di dover convivere ancora per diverso tempo in una situazione in movimento e non definita, di medietà come indica la ricerca, ma di iniziare partendo dallo Statuto regionale a porre quegli elementi costitutivi di fondo riconosciuti da tutta la comunità marchigiana (il famoso DNA) e da lì partire per un processo che abbia come obiettivo finale la costruzione di una propria identità regionale.

PRESIDENTE. Ha ora la parola Giovanni Serpilli, per la Cisl.

Giovanni SERPILLI, Cisl. Ringrazio il Presidente del Consiglio per questa ulteriore occasione di riflessione sulle dinamiche sociali che segnano la nostra regione.
L'intervento e la ricerca del prof. Ilvo Diamanti ci forniscono alcuni percorsi di riflessione che richiedono una esplicita risposta politica da parte delle istituzioni regionali.
La riscrittura dello Statuto regionale è l'occasione per costruire una nuova dimensione politico istituzionale che sia capace di affrontare la complessità del nostro tempo. Prima di fare qualche riflessione sui temi all'ordine del giorno, permettetemi alcune osservazioni sul processo di riscrittura dello Statuto.
Ad oggi debbo rilevare che, al di là delle iniziative culturali organizzate dalla presidenza del Consiglio, non ci è dato di sapere quale sia lo stato dell'arte in cui versa la elaborazione del nuovo Statuto regionale. In altri termini sarebbe stato opportuno che le forze :sociali fossero informate sullo stato di elaborazione a cui è pervenuta la Commissione consiliare. Forse sarebbe stato meglio intraprendere un percorso similare a quello compiuto da altre regioni dove, come per esempio in Toscana, è stato elaborato un testo di prime indicazioni che è stato proposto al dibattito pubblico.
Faccio queste affermazioni e queste richieste perché tutti noi abbiamo perfettamente coscienza che lo Statuto dovrà essere il principale strumento di governo delle istituzioni marchigiane. Tutti noi siamo inoltre convinti che attraverso lo Statuto sia possibile offrire forme e strumenti di socialità e identità alla nostra regione. Come Cisl aspettiamo con fiducia risposte a queste osservazioni.
E' stato detto che i cittadini marchigiani esprimono una valutazione positiva sulla qualità della vita locale. In generale rimane forte il sentimento "localista", che, tuttavia, non si accompagna a spinte conflittuali verso la dimensione centrale dello Stato.
Credo che nella nostra riflessione debba essere presente questa informazione. Ripensare il locale nella dimensione globale è un tema la cui declinazione istituzionale e sociale non può essere lasciata a forze politiche impregnate di ideologie micronazionalistiche ed etnofederaliste come la Lega di Bossi. Lo sviluppo locale non può divenire localismo chiuso, difensivo, ma deve costruire reti alternative alle cosiddette "reti lunghe globali", fondate sulla valorizzazione delle differenze e specificità locali, di cooperazione non gerarchica e non strumentale.
In tal senso si può prospettare uno scenario definibile anche come globalizzazione dal basso, solidale, non gerarchica, la cui natura è comunque quella di una rete strategica tra società locali. Questo progetto politico va costruendosi nell'attività di messa in rete di energie locali operata anche dal recente forum sociale mondiale di Porto Alegre. Tutto questo significa bisogno di decisioni politiche. Tutto questo denota con vigore il bisogno di istituzioni significative, capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini, di dare speranza alle persone circa il loro futuro. La elaborazione dello Statuto può rappresentare una occasione preziosa per tutto questo.
Per questa ragione richiamo alcune questioni che dal nostro punto di vista debbono avere piena dignità e presenza nel nuovo Statuto.
La Cisl ritiene che lo Statuto della Regione Marche debba esprimere anche altri principi oltre quelli costituzionali, quelli, cioè, che valorizzino, in modo non retorico o prolisso, l'identità regionale e le sue vocazioni. In primo luogo l'identità anche per la nostra regione è data dal lavoro. Il lavoro in tutte le sue dimensioni e forme, perché conferisce alla persona lo spazio della sua autorealizzazione, consentendole nel contempo di vivere correttamente i propri rapporti con gli altri e con il mondo. Per questo costituisce il primo dei diritti sociali che vanno riconosciuti a tutti i cittadini. Inoltre lo Statuto deve porre una particolare attenzione alla definizione dei diritti sociali che sempre più trovano una specifica collocazione nelle politiche regionali, dando loro un ampio riconoscimento, anche oltre il grado di tutela garantito dal livello nazionale. Riteniamo inoltre che debbano essere messi in evidenza come elementi essenziali della nostra convivenza la promozione della pace e della cooperazione allo sviluppo; la promozione della cultura dell'accoglienza e lo sviluppo di un ordinamento multiculturale. A questo dobbiamo aggiungere la valorizzazione e la promozione delle diverse espressioni della solidarietà organizzata.
Sarebbe opportuno che in fase di costruzione dello Statuto si facesse un'accurata ricognizione del "catalogo" dei diritti inviolabili al fine di completare ed integrare quanto già previsto dalla Costituzione. Ci sono, oramai, diritti di terza o di quarta generazione (dall'ambiente alla bioetica, per es.) che non sono previsti dalla nostra Costituzione e che sarebbe bene che lo Statuto tutelasse. In questo processo un aiuto importante può venire anche dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza. Mi preme solo richiamare che nel preambolo si afferma che "i diritti fondamentali fanno sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future". Questa è un'affermazione necessaria per dare sostanza al "principio responsabilità", spesso invocato, ma altrettanto spesso ignorato! Passo ad un altro elemento che per noi è essenziale.
Come Cisl riteniamo che all'interno dello Statuto debba essere significativamente considerata la partecipazione dei cittadini e delle loro forme associate come modo principe per realizzare una società sempre più democratica. Questa è la sola possibilità di risposta che abbiamo di fronte alle tentazioni di abbreviare i percorsi della democrazia che il crescente populismo propone anche nel nostro paese. In questo senso lo Statuto dovrà indicare i principi che dovranno caratterizzare il rapporto tra Regione e "società organizzata": tra questi vedrei imprescindibili quello di trasparenza dell'azione amministrativa, quello di rispetto dell'indipendenza del pluralismo sociale e della sua autonomia, specie con riguardo alla libertà di questo di organizzarsi, di agire in base alla spontaneità di cui questo è tradizionalmente espressione e che garantisce la sua capacità di dare risposte originali ed innovative ai bisogni emergenti nella società. In questo contesto si dovrà dare attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale di cui parla il nuovo articolo 118 della Costituzione.
Nel fare queste affermazioni ho presente come non sia in assoluto semplice realizzare tutto questo. Credo che in primo luogo occorra definire cosa si intenda per "società civile" o "società organizzata". Certamente bisogna giungere ad una definizione che abbia lo scopo di determinare la categoria ed in certa misura di limitarla, ad evitare il rischio di una sua pratica inconsistenza ovvero di un suo uso strumentale. Tra gli elementi che si potrebbero introdurre per tale definizione si potrebbe fare riferimento alla nozione di formazioni sociali private, finalizzate a vari scopi, operanti nel territorio regionale, che perseguono la tutela di interessi collettivi o diffusi, con un'organizzazione tendenzialmente stabile e senza fini di lucro. In secondo luogo occorre stabilire dei criteri (che nello Statuto potrebbero avere la caratteristica di principi di carattere generale) per l'individuazione dei soggetti che di tale "società organizzata" possono rappresentare gli interlocutori per la Regione. In terzo luogo, sarebbe necessario definire in qual modo e per quale scopo questo tipo di rapporto si può realizzare. Ma credo che il nodo a cui oggi si debba dare risposta sia rappresentato dalla domanda non retorica presente nel rapporto Censis: "come fare "coagulo" in una regione densa?".
Dal nostro punto di vista questo significa, in primo luogo, interrogarci seriamente circa il modello partecipativo regionale e circa il modello di relazioni sociali della nostra regione.
Il nodo che ci viene proposto, o meglio riproposto, è quello di come strutturare un sistema di governance che sappia mantenere il circuito virtuoso dello sviluppo della nostra regione in un quadro di contesti assai problematici o incerti. L'interrogativo del Censis ci chiede, in altri termini, su come strutturare forme cooperative per sostenere, incrementandolo, il capitale sociale e mantenere la coesione sociale necessaria per non degradare o perdere la nostra identità sociale. La elaborazione dello Statuto deve aiutarci a determinare principi e percorsi che dovranno essere, poi, intrapresi concretamente. Lo Statuto non potrà evidentemente ingessare le strutture e le iniziative necessarie a coagulare interessi e rappresentanze.
Preliminarmente non possiamo dimenticare o sottovalutare che la nostra regione deve essere interpretata come un sistema di sistemi locali. Non è una generica entità ma una rete sistemica. Questo deve indicarci che il percorso primo della governance deve inerire la dimensione del governo dei nodi della rete e dei sottosistemi da essi generati che, indicativamente, possono essere definiti con i distretti marchigiani. Confermiamo la nostra idea che la via da percorrere in questo livello è sicuramente rappresentata da forme di programmazione locale mediante patti. In questo modo possiamo pensare di mantenere un modello di società equilibrato, capace di conciliare benessere economico e solidarietà. Il nostro benessere e il nostro stesso stile di vita sono, infatti, strettamente legati all'equilibrio tra crescita, giustizia sociale e difesa dell'ambiente. A questo livello credo che debba essere significativamente segnato il ruolo e la presenza del sistema degli enti locali nella determinazione delle politiche e delle leggi della Regione. Per questo credo che debba essere prevista una forma significativa di rappresentanza in ambito regionale del sistema delle autonomie locali, come previsto per altro dal nuovo articolo 123 della Costituzione. Per questo credo che debba essere previsto il Consiglio delle Autonomie Locali.
Abbiamo chiaro che per rispondere ai bisogni e ai problemi della società marchigiana è necessario anche, e non solo, migliorare la qualità, l'efficacia degli atti normativi. Per ottenere questo è necessario un responsabile coinvolgimento di tutte le parti interessate e rappresentative. Per evitare palesi contraddizioni tra decisioni più sollecite e consultazioni migliori, che però richiedono tempo, occorre investire in adeguate consultazioni "a monte" per produrre soluzioni migliori.
Secondo la nostra visione, e la nostra esperienza, diviene essenziale prevedere nello Statuto le forme della codificazione del contributo al processo decisionale regionale delle autonomie sociali. In questo senso non possiamo trascurare quanto sta avvenendo in Europa. Infatti la Commissione delle Comunità europee nel suo recente Libro Bianco sulla governance europea evidenzia la necessità di strutturare le relazioni dell'Unione europea con la società civile. A questo fine il Libro Bianco sostiene che "un codice di condotta in materia di consultazioni individuerà le responsabilità e obbligherà tutte le parti in causa a rispondere delle proprie azioni. Ciò potenzierà il dialogo e contribuirà all'apertura della società civile organizzata".
Per questo riteniamo che, in parallelo al Consiglio delle Autonomie locali, debba essere previsto il Consiglio regionale economico-sociale. Nella nostra concezione, questo organismo dovrà inserirsi nel processo decisionale del Consiglio regionale in merito ai principali atti legislativi. La sua attività dovrà svolgersi sia nella fase di elaborazione degli atti normativi che nella fase, sempre più strategica, della valutazione degli effetti di tali atti.
Rispetto all'attuale situazione del Comitato economico e sociale "dipendente" dalla Giunta, riteniamo che sia opportuno collegare questo nuovo organismo al Consiglio regionale, anche perché la modifica del titolo V della Costituzione porterà la Regione a disciplinare nuovi ambiti materiali, alcuni dei quali di diretto interesse del sistema delle autonomie sociali.

PRESIDENTE. Abbiamo numerosi iscritti ad intervenire. Invito coloro che prenderanno la parola a stare strettamente sui sette minuti, per permettere di concludere a un'ora accettabile, non potendo continuare nel pomeriggio.
Ha ora la parola il prof. Buti, rettore dell'Università di Camerino.

Ignazio BUTI, Rettore università di Camerino. Il quadro che ci ha presentato il prof. Diamanti credo sia molto convincente. Tra l'altro quando penso alle Marche a me vengono in mente i quadri dei pittori impressionisti, in particolare dei "puntinisti": tanti piccoli punti di colore che vengono accostati gli uni agli altri fino a formare un quadro. Forse le Marche, in particolare, sono puntini con colore non molto denso, proprio perché sono piccoli questi punti, sono anche un po' sparsi, quindi l'immagine che ne risulta è un'immagine particolare come quella che abbiamo cercato di mettere in luce e di vedere in questa analisi.
Proprio questo fatto di essere tanti piccoli punti — anche perché c'è questa scarsa propensione ad aggregarsi, a lavorare insieme, a stare insieme — rende le Marche particolarmente deboli proprio perché sono piccole, proprio perché sono sparse. Credo che questo sia il problema principale che la politica si trova a dover affrontare e risolvere. Nonostante gli adagi "piccolo è bello", "in medium state virtus" e chi più ne più ne metta, in realtà questo è sicuramente, per noi, un limite e quindi bisogna superare le difficoltà che derivano da questa accentuata propensione all'individualismo dei marchigiani: la grande quantità di imprese che per tanti versi è un elemento positivo, per altri versi sicuramente non lo è. Specialmente in un mondo che va sempre più verso una concorrenza più spinta, verso reti sempre più avanzate e sempre più in espansione i singoli si troveranno sempre più in difficoltà, a mio avviso.
La politica ha questo compito di intervenire e superare questi problemi. Sicuramente non è un compito facile. Il percorso sarà lungo, difficile, ma io credo che una delle vie possibili, la via nell'immediato più percorribile è proprio quella della creazione delle reti, perché si può mantenere l'individualità, ma in un aspetto più collaborativo, meno concorrenziale, perché quando la concorrenza è troppo accesa e parcellizzata, sicuramente non riesce più a produrre effetti positivi ma soltanto negativi. Questo vale non soltanto all'interno della regione, ma è un problema che la stessa Regione si deve porre, nel senso di mettersi in rete anche lei con altre Regioni che hanno più o meno le stesse caratteristiche, o almeno alcune delle sue caratteristiche. Ma questo, ovviamente, non è un mio compito e un mio problema.
L'esperienza di essere rettore di università e in particolare di essere marchigiano, mi permette anche di fare qualche ulteriore osservazione. Tra l'altro sono un marchigiano particolare, perché sono un marchigiano dell'entroterra, della montagna e quindi per un verso una peculiarità in più rispetto alle tante peculiarità che ci sono. Ma nello stesso tempo, essendo vissuto sempre nelle università e nelle università marchigiane che hanno altre caratteristiche, quelle di non essere università locali — il corpo docente delle università marchigiane è formato in parte minoritaria di docenti marchigiani e nella maggior parte di docenti che provengono da tutta Italia, per non dire da tutto il mondo, perché questo succede: in tutte le università ma nella nostra in particolare abbiamo anche professori che vengono dalla Russia, dalla Polonia stabilmente, come parte del corpo docente, dal Giappone — direi che c'è una possibilità di osservare in maniera diversa la regione nella quale si vive, per questo contatto più frequente, per questo incontro di esperienze continuamente mutevoli, perché le università marchigiane, in particolare la nostra, quella di Camerino è una università di passaggio che determina alcuni elementi di forza e altri elementi di debolezza.
Credo che quello che sta emergendo all'interno delle università marchigiane è la sensazione, anche per loro, di essere università piccole, con quelle caratteristiche di debolezza che in questo è insito. Quindi la necessità di essere fra di loro, prima ancora che competitive, collaborative, cioè costituire anch'esse una rete. Certo, è un problema sicuramente difficile e non invidio affatto i politici che dovranno cercare di costituire una rete per ciò che riguarda la regione o addirittura al di là della regione. Noi, come rettori ci stiamo ponendo come obiettivo questa necessità di collaborare, di costituire in qualche modo una rete, ma siamo i primi ad essere consci come all'interno delle nostre università non sia affatto facile o non sempre facile far passare un messaggio di questo genere. Credo però che se c'è una pervasione di questa idea che costituirsi in rete possa essere uno dei modi per superare i problemi a livello diffuso, questo potrà rendere più facile il ricorso a questo strumento e anche più efficaci gli sforzi che si stanno compiendo.
Sono convinto che le strutture reticolari sono quelle che hanno migliore efficienza. Anche se pensiamo a come è fatto il nostro cervello, attraverso le reti neurali — così come si fanno funzionare i computer — credo che questa possa essere una delle dimostrazioni migliori di questo assunto. Questo non significa che sia facile passare dall'idea alla realizzazione, ma credo che debba essere l'impegno che tutti dobbiamo proporci.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Massi.

Francesco MASSI GENTILONI SILVERI, Consigliere Regione Marche. Prendo la parola per sottolineare l'importanza di questo momento di confronto e anche per porgere un saluto ai rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni e degli enti che sono qui presenti.
Non è mia abitudine leggere, ma per brevità e sintesi lo farò, anche per fissare qualche riflessione suggerita questa mattina dal prof. Diamanti.
Policentrismo e molecolarizzazione, moltiplicazione e diffusione, spesso di microattori, costituiscono la caratteristica peculiare della nostra regione ma, soprattutto, la nostra forza" e la nostra debolezza. La forza è nella vitalità, nella pluralità, nella poliedricità di "produzione" economica, culturale, sociale, associazionistica e solidale. La debolezza è ormai tradizionalmente nella dispersione nella eccessiva tendenza al "fai da te", al protagonismo, a non fare "squadra", a non fare "sistema" a proporre ricette e soluzioni "da soli".
E' allarmante il dato che emerge chiaro, che alla iperdiffusione del policentrismo non corrisponde l'aumento di ricchezza che si potrebbe aspettare, tale realtà che, in qualche modo si caratterizza per una capillarizzazione orizzontale (soggetti, associazioni ed attori che non comunicano) ha bisogno di nuovi indirizzi e di nuovi stimoli e forse, di nuove selezioni (non tutto può andare avanti, non tutti possono vincere, in termini di sfida alla competitività dei mercati ed alla qualità).
Nelle aziende si presenta, spesso "drammatico" il problema del "di padre in figlio": l'incapacità della terza generazione a prendere in mano e di dare impulso alla attività dell'azienda di famiglia. Nel turismo, ad esempio, tanti sono gli attori (pro loco, albergatori, bagnini, associazioni ambientali, Comuni, Comunità montane, enti vari, Regione, aziende e uffici) ma manca la strategia univoca, un messaggio unico ed organizzato. Gli ultimi provvedimenti sul turismo stanno a dimostrare che il problema si è compreso e si cerca di affrontarlo.
Nell'economia manca la capacità di cogliere nuovi indirizzi strategici per la piccola impresa e opportunità per sollecitare investimenti stranieri. Nelle istituzioni si registra l'ansia di decine di enti locali medio-piccoli preoccupati delle difficoltà di recepire nuovi compiti e funzioni con una organizzazione non aggregata e dispersiva.
Oggi tale complessa fenomenologia più che esaltarci, ci preoccupa.
E se è vero che tale enorme (e quasi unica in Italia) diffusione orizzontale di soggetti, come dice spesso De Rita, deve essere quotidianamente "accompagnata" dai poteri (credo in termini di reciproco rispetto, di non invadenza, di reciproca comprensione) è anche vero che urge un governo di tale contesto con forme di "verticalizzazione" della circolazione di idee, progetti e programmi.
In sostanza la riductio ad unum delle istanze e delle attività è un obiettivo non rimandabile se vogliamo rilanciare il "prodotto Marche.
Accompagno questa riflessione con un'altra derivante dai risultati di alcune vostre analisi.
I cittadini marchigiani hanno una fiducia sorprendente verso "meccanismi" ed istituzioni che, solitamente, sono o "lontani" rispetto alla società civile regionale (es. Presidente della Repubblica, Unione europea, ONU, NATO) o sui quali, comunque è difficile "incidere" direttamente (es. forze dell'ordine, scuola, chiesa). Ciò evidenzia due caratteristiche — qualità da ascrivere a merito o a demerito (a seconda delle opinioni) della nostra civiltà — e cioè: la tendenza a "delegare" organizzazioni superiori senza incorrere in tentazioni ribelli o anarcoidi; la evidente eccessiva fiducia in se stessi o nel "fai da te" che porta la nostra gente a credere che la costruzione della qualità della propria vita possa essere, sostanzialmente e quasi totalmente, il frutto del proprio lavoro senza scomodare i poteri "alti" impegnati in cose più "importanti".
A favore della sostenibilità di quest'ultimo giudizio c'è la più alta fiducia (anche se con gradualità diverse) nei confronti dello Stato, della Regione e del Comune, cioè nei confronti di quel sistema di poteri che potrebbe e dovrebbe essere più facilmente condizionato, monitorato e controllato con i "propri" rappresentanti ed amministratori. Qui si manifesta una piccola patologia: sembrerebbe infatti che i marchigiani abbiano meno voglia di credere e di affidarsi ai propri rappresentanti nelle istituzioni nonostante la propria scarsa voglia di impegnarsi in politica. Tuttavia c'è da dire che il sistema Stato-Regioni-Autonomie locali è talmente in evoluzione che i marchigiani, come il resto dei cittadini italiani, ancora non hanno percepito il rovesciamento dei poteri (che è stato determinato dalla recente riforme costituzionale) e la conseguente maggiore "vicinanza" della Regione e del Comune. Sotto questo aspetto, le attuali percentuali di fiducia nella Regione (42%) e nel Comune (44,5%) sono incoraggianti e probabilmente non potranno che crescere.
Due ultime curiosità: il fatto di diversificare il giudizio sulle istituzioni a seconda del colore di chi governa, denota un "pregiudizio" di immaturità dei nostri cittadini e di un sistema democratico che deve ancora "maturare"; il fatto che hanno più fiducia nella Regione i cittadini delle due province "sudiste" (Macerata, Ascoli) che sono tendenzialmente più di centro-destra e che tradizionalmente sono quelle che più contestano la leadership di Ancona su tutta la regione. Anche qui, una capitale forse non accettata da tutti, vista come accentratrice, a torto o a ragione.
Volevo ricordare a Serpilli il fatto che spesso le tendenze leghiste ci sono anche nei nostri territori e sono incarnate dall'uno e dall'altro schieramento a seconda delle battaglie, come per esempio la battaglia per la provincia di Fermo e quindi la reazione di Ascoli.
Tutti hanno parlato di esigenza di governance. Gli strumenti ci sono: il sindaco di Fano ha parlato del Consiglio delle autonomie, abbiamo parlato del Cnel regionale. Anche chi ha invocato lo strumento dello Statuto come occasione fondamentale ci incoraggia a dare una risposta con questo strumento, ma vorrei fare una riflessione finale: lo strumento, l'occasione, l'opportunità dello Statuto, l'analisi fatta qui e concordata finora da tutti gli interventi, anche le tendenze in atto dei programmi regionali, pur tra contrasti e visioni diverse, ci devono spingere a puntare su una forte proposta di rappresentanza del Consiglio regionale. Io non vedo altre strade e lo dico non per una volontà di accentramento o per un orgoglio nello svolgimento di questa funzione, ma attenzione: se la politica non ritorna ad essere quel pressing delle realtà diffuse, degli attori micro e macro di questa regione nei confronti dell'istituzione e dei singoli parlamentari regionali, non trovo altra soluzione. Siamo passati da un'epoca in cui la politica era tutto, in cui le associazioni stesse di categoria erano interna corporis dei partiti, quindi il pan-partitismo, probabilmente, aveva esautorato il sistema, l'aveva sfibrato, perlomeno l'aveva bloccato in certe relazioni politiche ad un'epoca in cui non ci interessano associazioni e categorie che siano interna corporis dei partiti; devono essere talmente esterni da formare quella base di pressing quotidiano da indurre ognuno di noi e le istituzioni a dare risposte.
Vi faccio un esempio: il nostro gruppo a maggio presenterà la proposta di legge sulle lobbies, perché vogliamo che si costruisce proprio la mentalità delle lobbies. Penso a Giorgio La Pira, che diceva che la suprema funzione della politica è la mediazione. Non c'è nulla di male che ci sia la lobby di un interesse o l'altro, però devono emergere e si devono confrontare. Le pressioni occulte o comunque sbrigative nei confronti del singolo politico o dei partiti, oggi non hanno più una funzione.
Le categorie si sono organizzate negli ultimi tempi, l'abbiamo visto: le categorie hanno creato dibattiti tra i candidati alla Regione, tra i candidati a sindaco ed è molto importante questo pressing che fanno le categorie, ma sicuramente la nostra risposta deve essere quella della più grande, attrezzata, organizzata, rispettosa, non invadente rappresentanza del Consiglio regionale.

PRESIDENTE. Ha la parola il prof. Bogliolo, rettore dell'Università di Urbino.

Giovanni BOGLIOLO, Rettore Università di Urbino. Prendo molto volentieri la parola in questo consesso, anche se mi devo scusare con tutti perché non ho un intervento programmato in quanto ho saputo di dover prendere la parola pochi minuti fa. Lo faccio lo stesso molto volentieri, sarò brevissimo e mi limiterò a parlare dell'unica cosa che credo di conoscere, cioè il sistema universitario, come d'altronde ha già fatto il mio collega Buti il quale ha su di me il vantaggio di essere marchigiano. Io sono un marchigiano di elezione, ho scelto le Marche 45 anni fa, non me ne sono ancora pentito, penso che ormai il tempo del pentimento non ci sarà più. Se non me ne sono pentito è segno che non sono di molte facile contentatura. E' segno che le Marche hanno risposto veramente alle esigenze della mia vita, alle esigenze del mio modo di vedere come si possa vivere e operare attivamente in un territorio e come questo territorio possa compensare del lavoro che si fa offrendo una gradevolezza di vita che altrove è difficile trovare.
Prendo volentieri la parola per sottolineare tutto il mio consenso, tutto il mio plauso alla relazione che ha introdotto questa seduta, sia le intenzioni espresse dal Presidente Minardi sia, soprattutto, la relazione dell'amico e collega prof. Diamanti, della quale relazione sottolineo soprattutto le conclusioni. Mi sembrano eccezionali nella loro sinteticità, non sono affatto dei miraggi utopistici, sono degli obiettivi raggiungibili, perseguibili, sulla strada dei quali a mio giudizio bisogna mettersi da subito.
Per quanto riguarda l'università, viviamo al nostro interno, almeno come sistema universitario marchigiano, una stagione nuova di accordi, di sintonia, di collaborazione e di programmazione coordinata. E' una stagione nuova che però da sola e con le sole nostre forze difficilmente riusciamo a realizzare. Qualcuno ha detto che punti di forza di questa regione sono il sistema sanitario e quello dell'istruzione. Di quello sanitario non voglio parlare, anche se credo veramente che a fronte di tante difficoltà che so in questo momento incontra la qualità dei servizi, sia pregevole, soprattutto se rapportato ad altre realtà regionali; di quello universitario vorrei dire che questa regione vista dall'esterno, molte volte noi stessi abbiamo la sensazione che venga un pochino irrisa per il fatto che, piccola com'è, abbia ben quattro università. Io invece credo che questa sia una ricchezza, ma diventa una ricchezza e un punto di forza di questa regione se queste quattro università offrono un panorama organico coordinato praticamente senza sovrapposizioni.
Io credo che siano due le strade da seguire: una quella di programmare in modo che le sovrapposizioni possibili, attuali vengano progressivamente stemperate. La riforma universitaria lo consente. All'interno delle classi in cui è suddiviso ormai l'ordinamento universitario nazionale si possono realizzare percorsi formativi sufficientemente diversi perché non ci sia più alcuna sovrapposizione. Una volta le sovrapposizioni si intendevano a livello di facoltà: all'interno della facoltà si possono avere vocazioni e predisporre, di conseguenza, indirizzi formativi complementari, in modo che in tutto l'arco della regione non ci sia sovrapposizione alcuna, questo è il primo aspetto. L'altro aspetto che sarebbe deteriore, sul quale credo che la nostra regione si sia anche troppo sviluppata è quello di rispondere a troppe sollecitazioni municipalistiche, che hanno determinato una sorta di polverizzazione dell'offerta formativa regionale su tanti comuni.
Credo che l'università sia un luogo di ricerca prima ancora che un luogo di didattica e la ricerca svincolata dalla didattica non ha senso alcuno, o meglio può averlo a certi livelli di insegnamento medio o forse superiore ma non certo a livello di insegnamento universitario.
Per valutare la qualità delle offerte che i Comuni o zone limitrofe che non hanno storia universitaria ma vorrebbero averla, hanno delle ambizioni e delle spinte interne per averla, il modo per filtrarle e per realizzare "colonie" o province universitarie fuori della sede istituzionale in cui le università operano potrebbe essere quello di vedere se ci sono le condizioni perché in quella sede si possano realizzare laboratori di ricerca e se quella sede sia in grado di investire in questo campo. La didattica è solo la parte emergente di un iceberg che è tale solo in quanto ha questa parte sottostante della ricerca. La didattica distribuita su sedi periferiche non ha praticamente sostegno se no ha un sostegno interno nella ricerca. Non solo, ma bisognerà anche distribuire, o sarebbe stato necessario distribuire questi vari corsi, inizialmente di diploma, ora di laurea, in sedi piccole e periferiche, anche tenendo conto di particolari esigenze vocazionali di quel territorio e non distribuendoli soltanto per andare a porre delle barriere contro espansioni esterne o fare una guerra di posizione su uno scacchiere che tanto più diventa ampio quanto meno diventa efficace e funzionale.
Ripeto, le strade a mio giudizio sono due: la Regione dovrebbe creare un vero e proprio sistema organico di istruzione universitaria in cui i quattro atenei marchigiani possano tutti attivamente contribuire e al quale sono certo tutti hanno intenzione attivamente di contribuire; evitare al minimo, o normare, o non ulteriormente sviluppare questa tendenza a distribuire l'offerta sul territorio che porta ad una liceizzazione dell'università, della quale l'università, per una serie di circostanze esterne che già la portano lungo questa strada, non ha assolutamente bisogno.

PRESIDENTE. Ha la parola Venturi, per la Cgil.

Gianni VENTURI, CGIL. L'indagine del prof. Diamanti ci restituisce un'immagine della nostra regione, non molto lontana dall'idea che ci si era fatti anche sulla scorta di precedenti, altrettanto autorevoli studi.
Le Marche come regione di passaggio media, plurale; come laboratorio per sperimentare soluzioni di qualità di problemi di un'Italia anch'essa in qualche modo piccola, diffusa, sparsa.
Una regione in cerca di identità, permanentemente sospesa in una sorta di modernizzazione dimezzata, tra rapido sviluppo economico e lenta e vischiosa trasformazione dei modelli sociali e culturali.
Condizione che ci viene puntualmente restituita dalle opinioni e dagli orientamenti raccolti e che, nello specifico, interroga il sindacato in termini di rappresentanza incerta, difficile da interpretare.
L'idea del lavoro che emerge dall'indagine, la frammentazione della struttura produttiva, la sua organizzazione interna, rendono immediatamente evidenti e percepibili i profili di una rappresentanza sociale, fluida, mutevole che tuttavia non ha impedito al sindacato marchigiano di sviluppare una densità organizzativa, una rappresentatività assolutamente consistente.
Ciò ha obbligato il sindacato stesso, e per tanti versi ne è stata anche la condizione dell'attuale radicamento, ad affrontare per tempo le sfide che sembrano oggi "spiazzare" altri soggetti di rappresentanza.
Nelle Marche il dibattito teorico se privilegiare il "posto di lavoro" o il "percorso di lavoro" è largamente risolto da una condizione nella quale ad alti livelli di mobilità e di flessibilità non corrispondono automaticamente altrettanti livelli di precarietà.
In molti casi si è trattato di una flessibilità da domanda che ha assunto i caratteri di una flessibilità scelta, di una flessibilità, diremmo oggi, "offensiva".
Nelle Marche e nei suoi distretti produttivi non è raro incontrare giovani che hanno scelto di lavorare dieci ore al giorno cambiando spesso impresa e licenziandosi per soddisfare esigenze culturali, di svago, di impegno e di cooperazione internazionale; non è difficile incontrare lavoratori che hanno scelto di "mettersi in proprio" e magari, in alcuni casi, sono anche tornati ad essere lavoratori dipendenti.
Ma a queste tendenze che hanno evidentemente influenzato una sorta di individualizzazione dei comportamenti verso il lavoro, si è andata sovrapponendo un'espansione dei rapporti di lavoro "atipici", una flessibilità non più scelta, carica di incertezze e priva di tutele.
Sono lavori e lavoratori a rappresentanza debole, che spesso non hanno ,testimoni privilegiati in grado di segnalarne l'esistenza nelle inchieste sociologiche, che non "bucano" le opinion-leader, che non fanno notizia.
Eppure sono il segno di una torsione profonda cui sono sottoposte l'economia e la società marchigiana, una torsione che nel contempo compone e scompone identità sociali, che allarga e restringe opportunità e confini della rappresentanza, che allunga e accorcia le reti relazionali delle imprese e delle persone.
I distretti industriali della nostra regione sono sempre meno distretti e sempre meno industriali, nel senso che tendono ad aprirsi ed a configurarsi come ambiti in cui la vecchia, spontanea miscela di flessibilità, di scambi tra salari, infrastrutture e servizi non regge più anche perché non è mai assurta a "compromesso sociale" consapevole tra soggetti di rappresentanza collettiva, delle imprese, del lavoro e delle istituzioni e di conseguenza non ha agito da elemento uniformante i caratteri dello sviluppo.
Siamo una regione sparsa, siamo la regione dove il più importante gruppo industriale nasce e si sviluppa in un territorio dove più debole è la presenza di infrastrutture, a cominciare da quelle viarie; siamo la regione dove lo sviluppo economico ha risalito alcune valli fino alle pendici degli Appennini e, magari, nella valle contigua si è fermato alla prima città sulla costa; siamo la regione dove è altissimo il differenziale dell'offerta di servizi sociali da territorio a territorio e dove la dimensione sociale dei sistemi locali stenta di più ad emergere come fattore di sviluppo. Siamo la regione che ha il triste primato, per indice di frequenza e di gravità, di infortuni sul lavoro.
Questi tratti e queste caratteristiche in qualche modo delineano la sfida che sembra essere rappresentata proprio dalla necessità di un nuovo "compromesso sociale" che sappia mettere in fase lo sviluppo economico e le trasformazioni culturali e sociali e sappia quindi fornire, forse per la prima volta, una base omogenea e condivisa ad una indispensabile, seconda modernizzazione delle Marche e della loro identità: plurale quanto si voglia, ma comunque identità marchigiana piuttosto che pesarese, dorica o picena.
Mi pare che lo sforzo che il Consiglio regionale sta facendo e la necessità che questo sforzo trovi una traduzione in termini di regole condivise anche dentro lo Statuto regionale possa andare in questa direzione.

PRESIDENTE. Ha la parola Fiorelli per la Confindustria.

Lorenzo FIORELLI, Confindustria Marche. Presidente, nel ringraziarla per l'opportunità che dà alla nostra associazione di poter prendere parto a questo dibattito rileviamo che i risultati delle due indagini, svolte l'una dal Censis, dal titolo "Rappresentare il policentrismo" e l'altra da "Lapolis" e dall'Università di Urbino, dal titolo "Atlante della regione Marche" costituiscono preziosi contributi al fine di mettere a fuoco l'attuale profilo della società marchigiana che ha fatto registrare rilevanti processi di cambiamento ancora in corso, soprattutto con riguardo agli assetti di tipo economico-sociale, culturale e nei rapporti con le pubbliche istituzioni.
Se per un verso tali indagini hanno confermato, fortunatamente, il permanere di valori forti e antichi come la famiglia, l'attaccamento al territorio, la qualità della vita, per altro verso hanno evidenziato l'insorgere di nuove paure, preoccupazioni di potenziali tensioni sociali come il fenomeno della criminalità crescente, l'immigrazione clandestina o le problematiche di integrazione di extracomunitari, le incertezze sullo scenario di fondo di un futuro a medio e lungo termine.
Si tratta comunque, nel suo complesso, di una società vitale, con poteri diffusi, aperta all'esterno pur se gelosa della propria identità e decisa ad essere protagonista del proprio destino.
In questa fase che precede quella della riforma, sia pur parziale, della Carta costituzionale, che comporta la necessità di adeguare anche l'ordinamento regionale, a partire dallo Statuto, sembra più che mai indispensabile coinvolgere con le istituzioni la società civile, nello sforzo di individuare organismi e procedure idonei a garantire un corretto, efficiente e condiviso rapporto di partecipazione del cittadino.
Vorremmo in questa fase fare solo un accenno agli aspetti statutari che alla nostra categoria sembrano più significativi. Ritengo opportuno in questa fase indicarne alcuni di ordine generale, nella preoccupazione che, se non dovesse funzionare al meglio lo snodo regionale, tutta la riforma costituzionale in senso autonomista e federalista avrebbe scarsissime possibilità di dare i frutti attesi.
Desidero invece esprimere solo alcuni orientamenti di fondo che a nostro avviso assumono rilievo strategico per l'intero processo, cioè l'applicazione del principio di sussidiarietà, gli strumenti e le procedure, gli organismi di partecipazione della cosiddetta "società civile" e i processi alle decisioni regionali, il rapporto tra potere normativo della Regione e potere normativo degli enti locali.
In materia di partecipazione ai processi deliberativi e decisionali degli organi regionali da parte di soggetti organizzati e rappresentativi della società civile e in campo economico, sociale e culturale nonché delle autonomie funzionali — Camere di commercio e università — riteniamo indispensabile istituire un'apposita struttura che sia unica sede istituzionale di confronto e di concertazione tra organi della Regione e gli altri soggetti interessati, con esclusione degli enti locali per i quali la Costituzione prevede un'apposita sede nel Consiglio delle autonomie locali. Occorre infatti dare stabilità di riferimento, certezza nelle procedure e livello adeguato di informazione affinché i rapporti tra la Regione e la società civile non continuino a rappresentare solo momenti rituali privi di reale contenuto.
Occorre trovare un punto di equilibrio tra ruolo normativo regionale e autonomia normativa locale, tale da rispettare il nuovo assetto dei poteri nell'ambito del principio di sussidiarietà, consentire una leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali e infine rendere più solleciti ed organici i processi di semplificazione e delegificazione, allo scopo di accelerare, per quanto possibile, l'ammodernamento complessivo delle nostre pubbliche istituzioni.
Auspichiamo che il sistema delle imprese, le forze sociali, le istituzioni trovino intese comuni atte a ridurre la frammentazione del sistema per creare le condizioni per migliorare la competitività non dei singoli ma dell'intero territorio, superando la medietà della nostra regione che è stata evidenziata dallo studio, trovando una forte identità in cui tutti possano identificarsi.

PRESIDENTE. Ha la parola Fioretti, per la Uil.

Graziano FIORETTI, UIL. Presidente, consiglieri, innanzitutto voglio ringraziare per l'occasione che ci è offerta oggi di dare un contributo ad una discussione che considero una ulteriore tappa di avvicinamento all'appuntamento importante e fondamentale per la nostra regione, la definizione della nostra Carta costituzionale. Lo studio e l'analisi della nostra comunità sono fondamentali da questo punto di vista, soprattutto se li consideriamo mirati a questo obiettivo.
Il tempo a nostra disposizione ci impone sinteticità e ci obbliga a considerare le questioni essenziali. In tal senso esprimo alcune opinioni e considerazioni in merito, partendo da analisi come quella qui rappresentata dal prof. Diamanti che ho avuto l'occasione di ascoltare in maniera anche più dettagliata e con i grafici a Fano, qualche mese fa. Un'analisi molto approfondita, uno strumento molto importante che si aggiunge ad altri strumenti e analisi che si sono realizzati in questo anno e mezzo.
Vediamo una società marchigiana che non ha ancora individuato il suo processo di rinnovamento: questo lo vediamo nel singolo, quindi vediamo anche le difficoltà delle crescite del solidale, della seconda, della terza generazione. Abbiamo una società che ha delle certezze da una parte e delle preoccupazioni dall'altra, una società con forti contraddizioni. Abbiamo un elenco di primati positivi, soprattutto sulle questioni del sociale, ma altrettanto abbiamo statistiche in cui figuriamo con primati negativi, in particolar modo in riferimento agli incidenti sul lavoro e agli eccessivi spontaneismi.
Quindi una società che deve scegliere il suo equilibrio interno, il suo equilibrio regolatore, che oggi si sposta da un'analisi che può essere puramente sociologico a un elemento organizzativo, perché il momento del processo federalista aggiunge una cosa in più a quella che anni addietro poteva essere esclusivamente una analisi tesa a individuare un modello in quanto tale.
Da questo quadro penso di poter sottolineare alcuni principi cardine su cui legare, amalgamare la nostra comunità, che penso sia un obiettivo fondamentale in un quadro di regole democratiche.
Penso che l'aspetto di un governo bipolare debba essere consolidato in maniera tale da disegnare la Carta costituzionale regionale a cui modellare il ruolo delle istituzioni. Non riteniamo auspicabile il ritorno al cosiddetto "modello istituzionale elettorale" della prima Repubblica. I limiti dell'esperienza di questi ultimi sei anni sono sicuramente inferiori alla conquista della trasparenza dovuta alla certezza della governabilità che il cittadino italiano e quindi quello marchigiano, da molto tempo andava chiedendo al sistema politico.
Con altrettanta forza sottolineo che lo Statuto o la nostra Carta costituzionale debba ricercare un nuovo equilibrio nel ruolo e nei contrappesi tra il "Governatore", cioè il Presidente della Giunta, e il Consiglio regionale. Questo può avvenire attribuendo ad ognuno dei due livelli istituzionali compiti molto chiari: gestione alla "Giunta del Presidente", controllo al Consiglio fino ad arrivare a considerare i due livelli istituzionali momenti diversi. Ciò impone quindi di modificare l'attuale situazione.
Il cittadino marchigiano deve decidere a chi dare il potere della gestione — vedi "governatore" — ma lo stesso cittadino vuol essere sicuro che l'esercizio del potere sia costantemente sotto il suo controllo.
Il sistema elettorale e un nuovo equilibrio tra Giunta e Consiglio non esauriscono assolutamente le risposte che provengono dalla complessa e articolata società marchigiana che il prof. De Rita e oggi, con molta forza e chiarezza il prof. Diamanti, hanno rappresentato nelle loro analisi. Una forte identità comunale? Forse una debole identità dell'istituto Regione che magari, come in questi ultimi tempi deve ricorrere a far quadrare i propri bilanci e quindi è costretta a interventi che ne rappresentano momenti negativi in termini di immagine?
Il tempo a disposizione non mi permette di inoltrarmi su questo terreno, ma ritengo sia doverosamente realistica la rappresentazione di una Regione aperta e proiettata verso i mondo globalizzato, un contenitore in cui convivono molteplici aspirazioni di interessi che hanno bisogno di ulteriori luoghi di rappresentanza e di sintesi.
La dimensione piccola e diffusa va rivolta ovviamente ad ogni aspetto, ad ogni attore della nostra società marchigiana. Per fare, indirizzare una politica economica e sociale occorre partire da questa realtà fortemente frantumata.
In tal senso emerge con impeto il ruolo delle autonomie locali, il ruolo della società civile organizzata, in particolare le cosiddette "forze sociali". Solo rispondendo a questa forte domanda che viene dalla nostra società marchigiana non commetteremo l'errore di sostituire il centralismo nazionale a quello regionale che mi sembra sia l'errore più grande rispetto alla rappresentazione, in positivo, che emergeva dallo studio del prof. Diamante. Anzi, la complessità della nostra società, la ricerca giornaliera di nuovi equilibrio, il governo delle dinamiche economiche e sociali e nuove aspirazioni ci impongono un modello di partecipazione e di coinvolgimento continuo di tutti i protagonisti.
In tal senso occorre prevedere una sede certa di coinvolgimento e quindi il ruolo delle autonomie locali attraverso una Camera elettiva o, in alternativa, una conferenza permanente. Questo è un elemento sostanziale nel momento in cui l'analisi individua questa forte identità comunale, quindi la necessità che questa forte identità comunale che bypassava e bypassa il momento regionale, si coaguli, si coniughi il momento con l'identità regionale.
Infine il modello partecipativo, di cui noi siamo fermamente convinti, deve dare risposte anche al ruolo e prevedere il coinvolgimento delle forze sociali. Questo nel quadro che veniva evidenziato di una forte diversità e identificazione, in maniera molto diffusa, anche degli aspetti sociali.
Il Comitato economico e sociale ha mostrato fortissimi limiti, ridotto né più né meno ad un noioso passaggio burocratico. Nonostante questo rivendico comunque la necessità di aver fatto questa esperienza.
Il nuovo modello partecipativo non può essere scadenzato e ricondotto a passaggi burocratici, ma nello stesso tempo non può essere lasciato alla libera disponibilità e sensibilità delle istituzioni, magari sollevando anche problemi di appesantimento del sistema delle relazioni. Occorre una sede certa e definita in cui le forze sociali esprimano pareri vincolanti, consultivi su tutti i provvedimenti legislativi in materia economica e sociale, pareri costruiti però, per evitare che sia un momento burocratico, sulla base di propri studi, analisi e progetti. Un po' come il modello Cnel.
Concludo sottolineando l'importanza del lavoro svolto dal prof. Diamanti. Questo contributo può entrare di diritto in diversi convegni con diversi titoli che abbiano carattere sociale, economico e culturale. A noi oggi interessa la lettura che possiamo farne per la organizzazione delle nostre istituzioni.
Il Consiglio regionale e tutta la società politica e sociale della nostra regione hanno oggi tutte le condizioni e gli strumenti per poter realizzare la nostra Costituzione regionale. Un invito quindi a far presto, perché se da una parte analizziamo e vediamo che questa società ha difficoltà a fare passi in avanti, dall'altra parte non possiamo aggiungere il vincolo-appesantimento di un modello istituzionale che non è più rispondente alle necessità. Quindi, buon lavoro al Presidente e al Consiglio affinché questo problema venga risolto al più presto possibile.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Procaccini.

Cesare PROCACCINI, Consigliere Regione Marche. Grazie, Presidente, un saluto agli intervenuti. Voglio portare alcune riflessioni rispetto ad una relazione complessa, a uno studio che dovrebbe essere sviscerato anche nelle sue parti più analitiche. Il tempo non ci consente oggi di discutere, di approfondire ed anche di fare una riflessione rispetto alla prospettiva, alle soluzioni che la relazione stessa pone. Voglio portare una breve riflessione del gruppo dei Comunisti italiani sulle tre questioni che mi paiono essenziali, che oggi sono in fortissima modificazione, ed anzi si sono sconvolte nel vero senso della parola: la società, l'economia, la politica.
La società è involuta ed evoluta per certi versi. Involuta perché ormai siamo all'interno di una crisi forte della partecipazione, una crisi identitaria anche del nucleo stesso della società fondante delle Marche, per certi versi la famiglia tradizionali. L'economia è modificata anch'essa, perché se è vero che nelle Marche non abbiamo mai conosciuto il modello di tipo fordista nelle dimensioni tradizionali, purtuttavia in alcuni settori importanti, importantissimi come quello della meccanica e dell'elettrodomestico, il "pezzo" lì partiva e lì finiva. Oggi questo fenomeno non esiste più, perché insieme ad una diversificazione di tipo produttivo, a mio modo di vedere è scomparso anche il tradizionale artigianato che noi conoscevamo, tant'è che la piccola e piccolissima impresa, addirittura l'"impresa-individuo" come veniva definita, che esiste nelle Marche, è diventata terzista rispetto ai tre comparti della meccanica, dell'elettrodomestico, del mobile-calzatura.
Per quanto riguarda la politica c'è stato un sommovimento sconvolgente che ha travolto il mondo, non solo l'Italia e quindi le Marche. Questa crisi di partecipazione che oggi viviamo ha avuto fenomeni molto diversificati e graduali nel tempo ma inesorabili dopo la fine dei grandi partiti. Sono emerse nello scenario le liste civiche, le aggregazioni delle associazioni che hanno interloquito in maniera diretta e forte con le istituzioni e oggi siamo addirittura all'interno di un conflitto tra istituzioni, in questa fase ancora non definita della tradizione marchigiana e nazionale. Anche questa crisi della rappresentanza, oggi cerca sponde insperate: abbiamo visto la grandissima manifestazione della Cgil in cui milioni di persone sono intervenute e anche centinaia di migliaia di persone delle Marche hanno partecipato a quella manifestazione, come dire che oltre al fatto specifico, alla difesa sacrosanta di un diritto messo in pericolo c'era anche la volontà di partecipare, di avere un soggetto al quale affidare la propria partecipazione attiva.
Oggi questi tre elementi sono in una ridefinizione forte, e da questo punto di vista le istituzioni dovrebbero leggere meglio il "modello Marche", tant'è che lo studio del Censis, il prof. De Rita non lo chiamano più "modello", lo chiamano "contenitore", addirittura un contenitore disordinato che avrebbe bisogno di un governo serio, senza confusioni di ruoli.
Io ho molte perplessità. Ho sentito qui parlare di nuovi modelli istituzionali di rappresentanza, seppure consultivi, come la Camera delle rappresentanze oppure i forum istituzionalizzati. Penso — è tutto da discutere, offro un giudizio critico ma riflessivo su questa questione — che, viceversa, una impostazione di questo tipo solo in apparenza favorirebbe la partecipazione, perché secondo me la proliferazione dei livelli assembleari potrebbe portare ad un assemblearismo indistinto che poi richiederebbe necessariamente la decisione, il decisionismo, quindi l'involuzione verso un presidenzialismo di tipo regionale. Dobbiamo stare attenti quando leggiamo e interpretiamo il soggettivismo istituzionale, perché siamo passati da una fase di diritti e di certezze in larghissima parte inattuati, ma purtuttavia di diritti, ad una fase di opportunità. E noi sappiamo che le opportunità sono positive se colte e governate da soggetti seri, progressisti, democratici, ma la soggettività è pericolosa quando è messa in mano a "governatori" tipo Lazio, che come primo atto ha proposto la censura sui libri di testo delle scuole.
Dobbiamo altresì prevedere — oggi non è all'ordine del giorno e non lo affronto, avviandomi a concludere — il problema dello Statuto. Purtuttavia, dentro questa lettura di una società che cambia, lo Statuto dovrebbe definire, per quanto riguarda il livello regionale e gli altri livelli, una certezza istituzionale. Non è possibile che la Regione invada il campo della Provincia, non è possibile che la Provincia invada il campo del Comune.
Questa declinazione della gerarchia istituzionale, solo in apparenza potrebbe sembrare di tipo istituzionalistico, ma in realtà, secondo me, è l'unica che eviterebbe il presidenzialismo. E' così che si potrebbe coniugare in maniera positiva e attiva la cosiddetta sussidiarietà verticale.
Concludo su quello che possiamo fare. Dobbiamo sviluppare un'analisi più compiuta della nostra società, perché è vero che siamo in un modello ricco, ma è anche vero che sono diminuite le sicurezze. Addirittura, nel campo del lavoro i morti e le disgrazie aumentano, oggi leggiamo sul giornale che i poveri della nostra regione e del centro Italia sono i più poveri rispetto alle regioni di cerniera. Mi riferisco ai pensionati. Dobbiamo quindi prevedere un modello diversificato. E' inutile parlare ancora di nuovi distretti industriali, non avrebbe più senso. Dobbiamo parlare, più propriamente, di un modello diversificato, nel quale riacquisti un ruolo centrale l'agricoltura, non come nicchia e come souvenir rispetto all'emergenza BSE, ma con una politica conseguente, con risorse certe, affinché gli operatori dell'agricoltura abbiano gli stessi livelli retributivi dell'industria. Sono alcune idee che avremo modo di sviluppare, purtuttavia credo che questo Consiglio "aperto" possa rappresentare un momento di partenza per uno studio più approfondito.

PRESIDENTE. Ha la parola Perazzoli.

Paolo PERAZZOLI, Confesercenti. Nel pensare alle cose da dire oggi ho cercato di liberare la mia mente dalla contingenza politica che può far velo su tutto, tentando di avere uno sguardo lungo su alcuni principi e scopi, tenuto conto che i principi-valori sono contenuti nella Costituzione italiana, ed è bene che vengano riaffermati, partendo da quello che siamo. Noi siamo una piccola regione fatta prevalentemente di piccole città con poco peso demografico, il che presuppone, in fisica, uno scarso peso specifico. Penso che questi fatti, per molti anni rimarranno simili a quelli di oggi: il peso politico di una piccola regione è quello che è. Né siamo una regione dagli ex confini che aveva una sua specificità.
Se pensiamo al prossimo futuro, un ruolo questa nostra regione lo può avere in una dimensione dell'Adriatico. Se pensiamo all'Adriatico, una dimensione non localistica, ci rendiamo conto che è meno largo di qualche fiume, meno grande di qualche lago e che nei secoli passati era più frequente, per i cittadini della costa marchigiana avere rapporti con la costa della Dalmazia che con le zone dell'entroterra, perché fin quando non sono stati inventati il motore a scoppio, le vie di comunicazione, il treno era più facile andare da Ancona a Zara che da Ancona ad Ascoli, ancora peggio a Roma. Se andiamo a vedere a Fano, a San Benedetto, ad Ancona i cognomi, le consuetudini, le imprese nate a Zara o a Sebenico e spostate a San Benedetto i rapporti degli artisti, degli artigiani nel passato sono frequenti. Questo può essere un ruolo, uno scopo, un obiettivo su cui lo Statuto deve porsi non più in modo accademico dicendo "la pace, la cooperazione", ma in una dimensione temporale di dieci anni, auspicando di avere la stessa moneta anche con la Croazia, con la Dalmazia. Comunque, già oggi si va liberamente. Quindi i rapporti, gli scambi saranno importanti e noi possiamo avere un ruolo di cerniera, di unità, di punto baricentrico con questa importante e martoriata zona.
Un altro punto che mi ha colpito è quello relativo alla parte in cui si confrontano la regione Marche e la regione Veneto. Emerge una specie di paradosso per cui la regione Marche è una regione molto solidale, dove si fa molto più affidamento, rispetto al Veneto, sulle istituzioni pubbliche. Da noi c'è meno volontariato. Questa è una caratteristica importante, su cui occorre riflettere per capire se a questo mix che nelle Marche c'è e che riscuote un certo successo, un certo gradimento, conviene puntarci per esaltarlo. In una realtà fatta di piccole e medie imprese, anche nella discussione che abbiamo fatto sulle tasse, spesso abbiamo detto "noi rappresentiamo le associazioni e pagare meno tasse fa bene a tutti", ma a questo ambiente marchigiano fatto di un mix di servizi sociali e di dinamismo le nostre imprese fanno affidamento per poter prosperare.
Se è questo, tutta la discussione che da anni va avanti sul rapporto con il volontariato, con il privato, sulla cosiddetta sussidiarietà che è un elastico che ognuno tira come vuole, da noi non deve essere una discussione basata non su un rapporto competitivo ma collaborativo, di supporto. Così come, per l'esperienza che ho fatto in passato, spesso le varie associazioni di volontariato — pensiamo al sistema sanitario — non sono in competizione ma lavorano con la struttura pubblica per garantire un servizio a cui la struttura pubblica direttamente non può arrivare.
Questo è un punto importante, è uno scopo, perché denota le caratteristiche di una società.
Un altro punto riguarda l'immigrazione. Dovremmo non limitarci a una enunciazione di principio che già sta nella Costituzione. Oggi l'immigrazione ha connotati molto forti, quindi dovremmo dire quali obiettivi si pone la Costituzione marchigiana per far sì che gli immigrati possano godere dei propri diritti, il che significa un pluralismo non più come è stato storicamente concepito, un pluralismo politico o di colore di pelle ma religioso. Questo va a toccare un punto importante per una regione come la nostra. Quindi una carta anche dei diritti e dei doveri. Andiamo a toccare un punto importante, una discussione che sicuramente avrà bisogno di momenti di approfondimento.
Con quali strumenti? Allo stesso tempo abbiamo bisogno della sintesi regionale — fare le leggi, gli atti amministrativi — e di una spinta al protagonismo sociale e istituzionale. Ci sono molte città cresciute in questi anni, che a malapena riconoscono leadership di altri comuni. Dobbiamo pensare non ad aggregazioni rapportate ad istituzioni pensate due secoli fa che possono svolgere una funzione, ma ad aggregazioni che nascano dal basso e che siano snelle. Sono molto preoccupato della istituzionalizzazione di tutto, perché poi scatta un meccanismo di ragionamento politico che condiziona il tutto. Occorrono aggregazioni strumentali, al servizio degli enti locali e delle associazioni per fare delle politiche. Pensiamo alla gestione dei rifiuti, alla gestione delle acque, alle politiche settoriali, del mobile, dell'agroindustriale, del turismo, o anche alle politiche sociali e territoriali. Reggio Emilia è diventata famosa nel mondo per gli asili nido, oltre che per il Parmigiano Reggiano. Per la stragrande maggioranza della popolazione marchigiana il singolo Comune non è in grado, per le sue dimensioni, di organizzare questo servizio. Ma questo vale anche per il sistema sanitario. Quindi aggregazioni e allo stesso tempo capacità di sintesi.
Veniamo, per concludere, al rapporto con le associazioni di categoria. Qui bisogna scindere ancora di più il problema, perché un conto è il rapporto politico tra chi governa e i rappresentanti delle organizzazioni del lavoro, i datori di lavoro è un rapporto prevalentemente politico, sta nella sensibilità di chi governa e nella capacità di rappresentanza di chi sta nelle organizzazioni sindacali. Quindi quando parliamo di un ruolo istituzionale bisogna molto stare attenti. Abbiamo il presidente della Giunta regionale che concentra su di sé un certo potere; la Giunta è nominata dal presidente, quindi ha un forte potere. Se alle organizzazioni sociali diamo delle sedi istituzionali significa quasi che il Consiglio regionale non ha più prerogative. Quando in Italia c'è stata la forte spinta per i comitati di quartiere, per la partecipazione dal basso, la morte di quell'esperienza è stata la legge per i consigli circoscrizionali, perché poi si politicizza, poi diventa una gabbia, un appesantimento, e allora bisogna stare attenti. L'attuale sistema si è dimostrato insufficiente, nello stesso CES abbiamo detto che ci vogliamo sentire periodicamente con il presidente e i suoi collaboratori per verificare, perché vogliamo dare un contributo continuo. Così come l'audizione spesso è una passerella che incide poco. Occorre trovare uno strumento che ci permetta di avere un rapporto costruttivo con chi governa la Regione Marche, ma allo stesso tempo avere la preoccupazione di non creare tanti pesi che poi carichino l'azione di governo su cui tutto deve poggiare.

PRESIDENTE. Ha la parola Fiori, per la CIA.

Franco FIORI, CIA. Anch'io a nome della Confederazione italiana agricoltori ringrazio il Presidente del Consiglio per l'opportunità di dare il nostro contributo a questo dibattito.
Le varie, ricerche i vari studi, fin qui condotti, nel tentativo di delineare l'identità della nostra regione e, contemporaneamente, fornire elementi utili per meglio delineare ed aggiornare le politiche di sviluppo e fornire informazioni necessarie per l'elaborazione del nuovo Statuto dell'ente Regione, confermano che i marchigiani sono attratti dal lavoro autonomo e sono molto sensibili ed attenti alle problematiche ambientali. Inoltre, si rileva che le associazioni di rappresentanza del mondo agricolo continuano ad avere nelle Marche un ruolo di rilevanza economica superiore a quello medio del centro Italia e soprattutto continuano ad incidere profondamente nella società locale.
Ringrazio per questo riconoscimento, e voglio sottolineare alcuni aspetti nel settore agricolo-alimentare che, mi auguro, possano essere utili per gli scopi previsti da questo Consiglio regionale, non tanto e non solo guardando al passato dell'agricoltura che, comunque, ha inciso profondamente e positivamente molto di più di quanto ha ottenuto economicamente, sia sull'attuale assetto economico, sia sulla tenuta ambientale, sia sulla qualità della vita. Per di più la legge costituzionale n. 3 del 18 aprile 2001 attribuisce la potestà legislativa del settore agricolo alle Regioni. Si tratta di una scelta condivisa dalla CIA perché in questo modo viene resa più pregnante la competenza primaria delle Regioni nel governo dell'agricoltura e perché viene sottolineata la dimensione territoriale dello sviluppo del settore.
In relazione alle politiche di sviluppo, l'agricoltura può e deve diventare uno dei momenti propulsivi e di rilancio; il cardine di tale progetto dovrà essere l'impresa agricola. Un'agricoltura con le nuove funzioni, previste dalla stessa Comunità europea, un'agricoltura come sistema nel senso che, il governo del territorio consente un approccio alle politiche di sviluppo rurale, non come ad un modello di sviluppo interno al settore, sussidiario o subalterno, ma profondamente e paritariamente diretto ad arricchire il comparto nel suo insieme, innanzitutto sostenendo l'identificazione tra prodotto e territorio e poi valorizzandolo nel suo complesso, attraverso un'ampia rete di relazioni esterne e sistematiche che pongono l'agricoltura, sia come volano di interessi diffusi che, sia come riferimento di tutela generale del territorio (urbanistica, nuovo rapporto città campagna).
E' pur vero, che nella realtà territoriali dove domina l'agricoltura svantaggiata, il settore è in difficoltà a risolvere i problemi di occupazione e di reddito, tuttavia occorre tener conto del contributo che la stessa agricoltura può portare ai processi di sviluppo delle aree rurali, dove rappresenta ancora una attività importante del tessuto socio-economico. Emerge in tutta evidenza il ruolo multifunzionale dell'attività agricola, nella quale, sotto il profilo strettamente produttivo, non viene messo in discussione il ruolo primario del settore nella produzione di beni alimentari e a garanzia della sicurezza alimentare, ma nel contempo si riconosce all'agricoltura una funzione ambientale, un sostegno allo sviluppo mediante la valorizzazione di attività connesse al territorio (gestione del paesaggio, conservazione della biodiversità degli habitat naturali offerta dei servizi agrituristici e ricreativi), ed il contributo alla difesa e al potenziamento dell'intero sistema socio-economico e dell'identità socio- culturali locali.
A supporto di questo nuovo e decisivo ruolo dell'agricoltura, bisogna attrezzarsi ad una nuova fase dell'intervento pubblico. Parte di queste novità sono già state introdotte nel piano di sviluppo rurale, nei confronti del quale l'interesse degli agricoltori è stato notevole. Occorre chiudere positivamente le varie stanze sia nell'interesse della categoria che nell'interesse più generale dell'economia marchigiana (i vari progetti presentati prevedono investimenti per diversi milioni di euro).
Per quanto riguarda l'elaborazione del nuovo Statuto, fatti salvi i valori fondanti della Repubblica italiana nata dalla Resistenza, alla quale il mondo contadino ha dato un notevole contributo, la CIA ritiene che esso più che una magna carta debba fissare criteri, principi e metodi. Nel nuovo Statuto, in cui si dovrebbero delineare i connotati dell'identità culturale della regione, i suoi obiettivi politici e sociali, occorre sancire il ruolo polivalente dell'agricoltura, come elemento portante dello sviluppo rurale.
Nello Statuto tuttora vigente, tenendo conto di una agricoltura degli anni '70, è ben definito il ruolo del settore primario: non progredi est regredi!
Altro elemento da introdurre è il principio di sussidiarietà, non solo istituzionale ma anche sociale (previsto dal V comma del nuovo art. 118), teso ad incoraggiare la multifunzionalità dell'agricoltura e delle imprese agricole; a valorizzare lo svolgimento di funzioni e compiti di interesse sociale da parte di organismi privati; a valorizzare gli apporti funzionali delle varie organizzazioni per realizzare idonee sinergie mirate a gestioni più efficienti ed economiche nelle varie attività.
Infine, occorre dare impulso con strumenti adeguati, alla concertazione che non possono essere le attuali audizioni. La concertazione rappresenta il modo più idoneo del confronto tra istituzione e parti sociale e va definita secondo rapporti di autonomia e di partecipazione attiva.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Ascoli.

Ugo ASCOLI, Consigliere Regione Marche. Credo che i molti contenuti che sono stati elaborati e illustrati qui dal prof. Diamanti come dagli altri, hanno messo in evidenza un panorama che non ci deve lasciare tranquilli, che non ci deve lasciar cullare sugli allori passati. Ho pensato, quando parlava Ilvo Diamanti a qual era il messaggio fondamentale che lui ci voleva trasmettere. Così come Ilvo è attento al titolo e alle parole con le quali sintetizzare una ricerca, credo che il messaggio sia questo: attenzione, le Marche stanno prendendo posizioni nel benessere della graduatoria nazionale e contemporaneamente ci sono grandi cambiamenti da affrontare, dal federalismo alla devoluzione dei problemi, alla riforma del titolo V della Costituzione che impongono un cambiamento anche delle modalità con le quali questa regione è cresciuta nel passato. Questo è il messaggio che ho sentito trasparire dai tanti elementi di analisi che Ilvo Diamanti ci ha ordinato in modo sistemico questa mattina, quindi credo che questi messaggi vadano raccolti mettendo in evidenza due punti: le sfide principali che abbiamo davanti, quindi tradurre questo messaggio in concreti terreni di sfida; le responsabilità degli attori che si trovano ad affrontare queste sfide.
Credo che le quattro grandi sfide che le Marche hanno di fronte e che in gran parte sono state già analizzate, se le mettiamo di nuovo in ordine per fare corpus teorico, sono le seguenti.
La prima sfida è quella della demografia. Stranamente nessuno lo ha citato, ma le Marche sono la regione più vecchia d'Italia e questa sfida è di grandissima portata, che ancora non abbiamo ben compreso ma che probabilmente ci inviterà a cambiare molto del nostro sistema di vita e della qualità della vita.
La seconda sfida demografica è la questione dell'immigrazione. Per la prima volta le Marche si stanno aprendo, diventando una società sempre meno omogenea dal punto di vista sociale, con tutto quello che ciò comporta e che i sociologi, i politologi, i demografi, gli economisti e altri scienziati hanno già messo in evidenza.
Quindi la prima sfida è quella demografica: società di anziani, società sempre meno omogenea socialmente.
La seconda grande sfida è quella dell'economia. Tutti hanno messo in evidenza la crescita delle piccole e medie imprese, le varie formule che sono state coniate: "industrializzazione diffusa", "economia di piccole e medie imprese", "distretti industriali". Ebbene, questa economia sta cambiando. Fino desso questa economia era cresciuta quasi a prescindere dalle politiche pubbliche, con grande dinamismo, con grande capacità di iniziativa, si sta globalizzando, lo vediamo dagli stessi rapporti degli economisti fra l'economia delle piccole e medie imprese e le esportazioni. Mentre sai sta parlando di apertura dell'Europa già le piccole e medie imprese stanno intensificando moltissimo i rapporti con l'Europa centro-orientale in misura che non si conosce se non ci si va dentro. Però questo sistema di piccole e medie imprese per crescere ulteriormente, fare competizione non selvaggia e poter continuare ad alimentare il benessere che ha alimentato nel frattempo ha bisogno di politiche pubbliche forti, che non si sostituiscono all'imprenditoria ma che consentano meglio di trasformare il settore della piccola e media impresa. Dico "settore" perché il "distretto" ormai è un concetto abbastanza poco utile per capire quello che sta accadendo: si parla di imprese a rete, di nuovi modelli, di distretti lunghi, di nuove formule, perché questa economia sta crescendo, questa economia ha bisogno di interventi della politica, come in tutte le regioni italiane. L'impresa fa il suo mestiere, ma per continuare a fare bene e meglio il suo mestiere non può più fare a meno del sistema di politiche pubbliche.
La stessa cosa vale per l'agricoltura. C'è una nuova centralità dell'agricoltura che ancora non si è capita bene, che non significa produzione fatta da un piccolo esercito di produttori ma significa una modalità di intervento nella società che è decisivo per il benessere delle popolazioni — lo si è visto dalle recenti vicende — che è decisivo per la tenuta degli ambienti di questa regione e che è decisivo anche per una parte economica collegata al reddito di chi ci lavora ma anche ai settori di trasformazione e ai nuovi settori industriali che hanno grande futuro e che si legano anche alle nuove correnti e vocazioni turistiche.
La terza sfida è il welfare. Noi abbiamo un sistema sanitario che è stato lodato da molti ma che sicuramente è sottoposto a grandissimi stress economico-finanziari ed è sottoposto a grandissimi stress anche da posizioni organizzativo-gestionali. Come abbiamo un sistema di interventi di servizi sociali molto differenziato, che privilegia di fatto solo alcuni territori e che ha bisogno di una grande riorganizzazione. Come si fa a definire nuovi sistemi sanitari regionali, nuovi sistemi di servizi sociali è un'altra grandissima sfida che abbiamo di fronte, perché si incrocia con gli elementi negativi che dirò fra un momento.
La quarta grande sfida è quella dell'ambiente. E' stato detto anche da Ilvo Diamanti che abbiamo fiumi inquinati, un problema di acqua, abbiamo suoli contaminati, abbiamo problemi di traffico straordinariamente incisivi in alcuni territori, abbiamo problemi di coste degradate e potrei andare avanti. Non è un'isola felice come è stato detto da Ilvo Diamanti, non è certamente Seveso e non è certamente la Val Bormida ma è sicuramente questo un tema di grandissimo spessore.
Come si fa ad affrontare la sfida della demografia, la sfida dell'economia, la sfida del welfare e dell'ambiente? Lo si fa con una nuova modalità di essere degli attori protagonisti di questo territorio. Cosa significa? Significa innanzitutto una grande responsabilità delle classi dirigenti in questa regione. Quando parlo di classi dirigenti intendo dai dirigenti politici a quelli delle organizzazioni sindacali, delle associazioni di categoria, agli imprenditori, agli intellettuali, ai dirigenti di terzo settore. Questa classe dirigente, l'establishment nel suo complesso fino adesso ha alimentato il localismo, il municipalismo in maniera selvaggia in questa regione e ha alimentato una competizione selvaggia fra territori. O questa cultura cambia e si finisce di alimentare solo localismo e municipalismo in maniera più sofisticata o più grossolana, in modo trasversale ai partiti politici e si cambia registro, oppure se si finisce di aprire solo un discorso di competizione selvaggia fra i territori, allora forse riusciremo ad attrezzarci gradualmente per far fronte alle sfide che abbiamo di fronte. Questa è una grande responsabilità delle classi dirigenti e queste classi dirigenti devono avere un'altra grande responsabilità: di costruire, di favorire un rafforzamento nel territorio con un'azione di impowerment del tessuto associativo a tutti i livelli. Nelle moderne riforme abbiamo visto che l'ente locale non deve più preoccuparsi di avere rapporti con il terzo settore o con le cooperative in modo congruo, non guardando solo al massimo ribasso, ma deve preoccuparsi che nel suo territorio i partners potenziali locali sono deboli — se l'associazionismo, il cooperativismo, il volontariato sono deboli — deve creare delle azioni che rafforzino questi soggetti tramite la formazione, il credito, il fisco, l'accesso ai fondi europei. Ormai siamo in una concezione in cui non solo si parla di mix ma si parla di pubblico che deve preoccuparsi che il suo territorio, quella che si chiamerebbe, con un termine che no mi piace, la sua "società civile" sia la più forte possibile per poter costruire questo sistema di governance allargato.
Allora hanno grande responsabilità le classi dirigenti della nostra regione. Il salto lo si potrà fare, le sfide si potranno raccogliere, forse le posizioni si potranno recuperare se riusciremo a guidare un processo di trasformazione per cui dalle culture di competizione localistiche si passi a culture di tipo collaborativo, concertativo, di largo respiro, attenti alle risorse locali. Ma non confondiamo l'attenzione alle risorse locali con il localismo. Il localismo è un elemento negativo, l'attenzione alle risorse locali è un elemento positivo, una disquisizione che i sociologi stanno cercando di mettere in campo. Vedo che Ilvo non è tanto d'accordo, Bagnasco sarebbe d'accordo, alcuni ci stanno ragionando, è un tema di dibattito, comunque mi pare chiaro che o la politica fa il suo mestiere in questa direzione oppure le sfide porteranno, tra cinque anni, a vedere ulteriori peggioramenti nella graduatoria di benessere di queste regioni, ulteriore marginalizzazione di una società come quella marchigiana, ulteriore perdita di centralità e di capacità di sviluppo.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Tontini.

Roberto TONTINI, Consigliere Regione Marche. Credo che questa sia un'importante occasione dalla quale, grazie agli spunti ricevuti dal prof. Diamanti inizia un dibattito che ci porterà alla definizione del nuovo Statuto che come Ds interpretiamo come uno dei momenti fondamentali che di più caratterizzerà il lavoro di questi cinque anni di legislatura. Sarà quella che per certi versi di più lascerà il segno e porrà le basi del modo di collocare questa nostra regione nell'ambito della modernizzazione di questo Paese ma nel contempo di come, attraverso la ridefinizione delle regole si possano cogliere a pieno tutte le potenzialità della nostra regione. Su questo venivamo stimolati dalla relazione del prof. Diamanti il quale ci ha detto una cosa che forse noi che operiamo in questa regione conosciamo ma rispetto alla quale non sempre attribuiamo il significato e il valore pieno che questo ha. Ce lo diceva quando ci ha espresso con molta chiarezza la difficoltà che ha avuto a trovare una definizione che potesse racchiudere in un unicum le caratteristiche di questa nostra regione.
Nella sua introduzione ha evidenziato la particolarità determinata dalla grande diffusione (la parcellizzazione, l'essere sparsi), tutti elementi, questo essere di mezzo fra i grandi e i piccoli ma anche in termini geografici, senza essere centrali rappresenta sicuramente una delle caratteristiche fondamentali che io credo ha fatto della nostra una regione che ha raggiunto nel tempo risultati importanti, positivi. Credo che questo sia un punto di partenza del ragionamento che dobbiamo tenere presente. E' quello che ci ha permesso di mantenere un legame con il territorio che è importante, che è sano, che ci ha permesso di avere condizioni di vita sociale che ci vedono fra le regioni più avanzate in Italia, che ci ha permesso di avere una diffusione del reddito che non ha eguali in altre regioni d'Italia, che ci ha permesso di mantenere un gusto della vita che credo rappresenti uno degli elementi fondamentali che dovrebbe caratterizzare l'etica anche del fare politica, come uno degli obiettivi di fondo nel fare politica, ma contemporaneamente, a fianco di tutto questo e assieme a tutto questo ci dice che le cose stanno cambiando, che tutto quello che è avvenuto in un contesto non sempre determinato e regolato dalla politica, anche se sicuramente la politica ha avuto un importante peso sta cambiando, per cui la gran parte di queste cose avvenute in modo anche spontaneo, dovuto anche allo stratificarsi di condizioni sociali e particolari, da sole non sono più sufficienti, necessitano di politiche, di azioni che siano oggi caratterizzate da un'analisi chiara dei punti di forza e di debolezza e su questo costruire alcuni obiettivi.
E vengo a due considerazioni. La prima attiene più alle modalità della politica. Per certi versi, quale cultura politica per affrontare uno stato di cose come quello che noi affrontiamo nella regione Marche? E' uno stato di cose diverso dalle altre regioni e come tale va affrontato con una cultura politica diversa. Ad esempio, la stessa difficoltà che ha trovato il prof. Diamanti nel riportare ad un unicum la nostra regione è un errore che la politica non deve compiere, a mio avviso. La politica non deve compiere l'errore di pensare di ricondurre ad un unicum la diversità e la pluralità di questa regione. L'esigenza di avere linee comuni che affrontino i punti di debolezza che oggi questa regione ha, più che ragionare sulla definizione di scelte e azioni da imporre, deve essere molto di più basata sulla necessità di mettere in campo idee che tendano a far convergere i vari attori, che sono tanti e tutti importanti, verso il raggiungimento degli obiettivi.
Quindi una politica che più che lavorare sulle definizioni delle scelte organizzativo-amministrative si concentri sulla condivisione della mission e della vision, cioè di quello che vogliamo far raggiungere a questa regione. Su questo di più la politica deve caratterizzarsi. Deve tralasciare l'errore che qualche volta compie di semplificare e di dare una ricetta unica, cercando invece di lavorare più sulla condivisione di obiettivi di carattere più generale verso i quali far convergere le azioni dei vari attori che operano in questa regione, che sono tanti, vari e tutti importanti: tutti quegli attori che hanno determinato le condizioni di questa nostra società.
L'altro aspetto attiene alla definizione delle regole del governo e della partecipazione. Devono essere regole che permettano l'esercizio di una politica così come l'ho concepita. Per le cose che il prof. Diamanti ci diceva nelle sue analisi, probabilmente la nostra regione più di altre si presta, nella definizione delle regole, a tenere in modo fermo e attento presenti due fattori: la sussidiarietà orizzontale e verticale, sapendo che oltre a questo, nell'ambito del ragionamento sulla rappresentanza, oltre alla democrazia decidente abbiamo l'esigenza di rafforzare la rappresentanza del luogo del Consiglio regionale, quello nel quale oggi parliamo, con una delle forme che anche questa mattina stiamo esercitando, per certi versi, ma che oltre a questa ne ha delle altre: ridisegnare ruoli forti del Consiglio regionale soprattutto rispetto alla sua capacità legislativa ma ancora di più per quanto riguarda il controllo e l'indirizzo che sono due degli elementi che i Consigli non hanno nella nostra storia mai esercitato.
Questo però attiene a un'altra parte. La relazione di questa mattina mi chiama invece a soffermarmi di più su altri aspetti. Quello della sussidiarietà deve essere con forza da noi tenuto presente, perché una società come la nostra, come è stata definita nelle relazioni, è una società che più di altre ha bisogno nel prossimo futuro della crescita forte dei corpi intermedi. Mi riferisco in principal modo all'associazionismo di categoria, sindacale, all'associazionismo in generale, mi riferisco alle autonomie funzionali, mi riferisco al mondo delle università che dovranno, in una gestione di una società complessa, più complessa delle altre, avere un ruolo maggiore rispetto ad altre realtà, perché più è forte l'identità di una regione meno è necessaria la presenza dei corpi intermedi; meno è forte l'identità di una regione, più questa è diffusa, complessa, più è forte l'esigenza di rafforzare il ruolo e il peso in termini di sussidiarietà orizzontale di questi corpi intermedi.
Colgo un aspetto che poneva il consigliere Massi. Lui parlava della legge sulle lobbies. Io non parlo di quello, ma in un ragionamento di sussidiarietà penso ad un ruolo dell'associazionismo che per forza di cose deve passare anche attraverso una legge sulla rappresentanza che definisca meglio, in modo più forte il ruolo che queste debbono e possono avere se sono non soltanto un momento di aggregazione spontaneo ma anche una organizzazione che ha un sua legislazione in termini di ruolo e metodo della rappresentanza. Ma ancora di più l'università per quanto riguarda la ricerca, le autonomie funzionali (Camere di commercio e non solo, le stesse università). L'altro aspetto della sussidiarietà è quello verticale: noi dovremmo avere una attenzione nella definizione delle regole di tutto lo Statuto regionale. Sia quindi una sussidiarietà che non deve fare confusione fra i ruoli: ogni ruolo di questa nostra Regione deve avere funzioni chiare ma non ridondanti, no sovrapponibili per certi versi, ma deve essere pensato come un governo diffuso di questa nostra regione e come tale sapere che le varie istituzioni che sono i Comuni, le Province, le Comunità montane, la Regione insieme concorrono al governo complessivo della nostra regione. Rispetto a questo non c'è una di queste istituzioni che sta sopra le altre ma sono istituzioni che hanno funzioni, compiti e ruoli differenti e insieme concorrono al governo della nostra regione.

PRESIDENTE. Ha la parola Volpini, per la Confcommercio.

Mario VOLPINI, Confcommercio. Tre riflessioni su turismo, servizi e commercio, che poi si riflettono nella relazione del prof. Diamanti.
L'economia marchigiana ha mostrato nel corso del 2001 segnali di una certa dinamicità sospinta soprattutto nella prima parte dell'anno dalla ripresa dei flussi esportativi conseguenti allo sviluppo del commercio internazionale e alla debolezza dell'euro nei confronti del dollaro e, in base alle informazioni disponibili, sembra aver subito meno del resto del Paese la decelerazione che si è registrata nei mesi finali dell'anno.
Le esportazioni, dopo la netta ripresa registrata nel 2000 sono cresciute nei primi nove mesi dello scorso anno con incremento superiore alla media nazionale, ma registrando un rallentamento rispetto all'andamento della prima parte dell'anno. La presenza di un. contesto economico generalmente positivo si riscontra anche nell'andamento del mercato del lavoro che ha registrato nel corso del 2001 una crescita di 11 mila nuovi posti di lavoro e una diminuzione delle persone in cerca di occupazione, ponendo la regione tra quelle con il tasso di occupazione più elevato (47,5%).
D'altro canto, il tasso di disoccupazione risulta tra i più contenuti (4,6%,), toccando il minimo della provincia di Pesaro dove è sceso al 3,5%. La buona evoluzione del mercato del lavoro è confermata anche dai dati sulla disoccupazione giovanile il cui tasso è sceso dal 16,1% del 1999 al 12,2% del 2001.
Il miglioramento del contesto produttivo, pur legato essenzialmente alla componente estera della domanda, si è riflesso sulla struttura imprenditoriale della regione che ha mostrato una certa vitalità. Nel corso del 2001, infatti, in base ai dati dei registri camerali, il saldo tra nuove iscrizioni e cancellazioni è risultato positivo per 1.180 imprese ed ha interessato prevalentemente imprese costituite in forme giuridiche societarie, mostrando come il sistema imprenditoriale marchigiano, costituito in prevalenza da piccole imprese (oltre il 70%,), si stia adeguando alle esigenze che la competizione sui mercati esteri richiede, ossia imprese più solide e strutturate. In questo contesto anche il settore commerciale che costituisce un comparto particolarmente vitale dell'economia regionale, con quasi 38 mila imprese attive (di cui oltre l9 mila appartenenti al comparto dettaglio) che danno lavoro a 99 mila persone, è interessato da un processo di concentrazione e di trasformazione delle aziende alla ricerca di un adeguato assetto organizzativo.
D'altra parte, la presenza della grande distribuzione nell'area, continua a svilupparsi in modo consistente determinando un innalzamento del livello competitivo e ciò comporta per le piccole imprese nuove scelte di carattere strategico, pena l'uscita dal mercato.
La dotazione di questa componente del dettaglio, infatti, sulla base dei dati del Minindustria, relativi al 1999 risulta composta da 235 supermercati, 32 grandi magazzini e 7 ipermercati, che nel complesso sviluppano una superficie di vendita pari a oltre 282 mila mq. (nel '92 era pari a circa 192 mila mq.) e che, se rapportate alla popolazione, indicano la disponibilità di poco più di 17.000 mq. Ogni 100 mila abitanti, ponendo la Marche tra le aree maggiormente dotate di insediamenti commerciali di grande dimensione, rispetto alla media italiana (12.439 mq./ab.).
In questo contesto nel corso del 2001 (periodo gennaio-settembre) è proseguito il processo di riduzione dei piccoli esercizi indipendenti e la loro sostituzione con esercizi appartenenti alle catene distributive nazionali o in forma societaria: secondo i dati di Minindustria relativi alla movimentazione degli esercizi al dettaglio in sede fissa è infatti diminuito il numero di imprese con sede legale nella regione, mentre è aumentato il numero di unità locali (+111), probabilmente imputabili ad un consistente utilizzo delle forme di franchising e di associazionismo.
Questa tendenza sembra essere confermata anche dai dati dell'occupazione: nel corso del 2001 il numero di persone occupate nel settore è cresciuto di 9 mila unità, ma invertendo quanto avvenuto negli anni scorsi la crescita è imputabile in larga parte alla componente indipendente (+6 mila), mentre quella dipendente ha registrato una crescita più contenuta rispetto allo scorso anno. Le dinamiche che emergono dai dati qui espressi mettono in rilievo alcune linee di fondo: la trasformazione della rete distributiva in questi anni è stata profonda, soprattutto per il peso crescente delle superfici di media e grande distribuzione e delle innovazioni delle tecniche di vendita. Purtroppo non si è trattato di una trasformazione neutra ed indolore, ma di un processo che ha contribuito, assieme a fattori congiunturali, a mettere fuori mercato numerose imprese, la maggior parte di piccole dimensioni. Ai costi "sociali" che la trasformazione strutturale e lo sviluppo hanno imposto, si devono considerare anche i costi derivanti dagli effetti sullo sviluppo del territorio urbano, sulla mobilità dei consumatori, sulla difesa dell'ambiente, sulle conseguenze demografiche e dei servizi nei centri storici. Nonostante tutto la rete commerciale della piccola impresa rimane il nucleo centrale del sistema, grazie ai suoi punti di forza costituiti dalla localizzazione diffusa, dal servizio offerto, dalla qualità dei prodotti, dalla professionalità degli operatori. Il processo del sistema distributivo degli anni a venire dipenderà in larga parte dalla politica del settore che le Regioni, oggi titolari delle competenze, vorranno e sapranno condurre. Infatti il futuro della piccola impresa commerciale sarà diretta conseguenza della politica regionale in materia di: urbanistica commerciale; incentivazioni finanziarie al settore; politica tributaria; ambiente e sicurezza; formazione professionale.
Una serie di problematiche che vanno affrontate nel contesto di un progetto coordinato e finalizzato con la collaborazione delle organizzazioni di categoria quali espressioni delle istanze che giornalmente registrano e vivono in prima persona.
Il comparto turistico in termini di offerta, secondo i dati disponibili elaborati nel 2000, è composto da 1.054 strutture ricettivo-alberghiere con una capacità di 58.000 posti letto a cui si aggiungono circa 52.000 posti letto nei campeggi e villaggi turistici. Il turismo nelle Marche, come nel resto altrove, rappresenterà uno dei maggiori comparti produttivi, avendo esso il carattere di trasversalità e capacità di attrazione di altre economie. L'attrattiva turistica nelle Marche, trattandosi ancora di un mercato non altamente sviluppato, si fonda per oltre 1'80% sul segmento mare, mentre quasi il 9% delle presenze nelle città d'arte, il 7,6% in montagna e solo il 3% nelle destinazioni collinari. Il turismo nelle Marche rappresenta, in termini di arrivi, circa il 4% nei flussi turistici registrati in Italia e la maggior parte di essi è costituita da clientela italiana. Dai dati citati si evidenzia che il settore turistico non ha ancora raggiunto nella regione un ruolo adeguato alle potenzialità di sviluppo economico ed occupazionale che è in grado di esprimere, è necessario dunque potenziare gli interventi di attivazione dei finanziamenti al settore cosi come di attente politiche organizzative e promozionali.
Il settore dei servizi alle imprese e alle famiglie è caratterizzato da una evoluzione recente e pertanto scarsi sono i dati disponibili. Allo stato attuale l'unico indicatore dall'anagrafe Camerale (Movimprese) riporta come in attività nella regione 23.375 imprese pari al l5% del tessuto produttivo regionale. Il segmento dei servizi alle imprese è costituito da circa 16.000 aziende e di 7.000 quello dei servizi alle famiglie. La forma giuridica prevalente è quella di azienda individuale (71%) circa. Nell'ultimo periodo il settore dei servizi è in lieve crescita dopo la battuta d'arresto nell'anno 2000. Le brevi note sulla consistenza dei settori rappresentati se pur non esaustiva di quanto essi possano contribuire allo sviluppo economico della nostra Regione danno tuttavia la misura del trend ormai da tutti riconosciuto della cosiddetta "Terziarizzazione" nell'era post industriale; un processo che responsabilizza le imprese e parallelamente induce quanti sono chiamati alle decisioni di carattere politico alla loro attenta considerazione nella costruzione del progetto di sviluppo economico e sociale. Le riforme in atto, derivate dalle modifiche costituzionali pone tutta una serie di problematiche che vede le regioni impegnate nella ricerca di un nuovo processo democratico di governo regionale con innovativi rapporti con la società civile, con le associazioni, con il volontariato, in un coinvolgimento pregnante e costruttivo, avendo come fine obbiettivi comuni e condivisi. Quelli che stiamo vivendo sono momenti importanti e decisivi che segneranno un lungo periodo storico, occorre dunque non sbagliare ma soprattutto aprirsi alla discussione, agli apporti, alla partecipazione di quanti nella società esprimono valori e ruoli decisivi.
Ci auguriamo che l'occasione dell'elaborazione del nuovo statuto regionale colga con chiarezza le considerazioni qui svolte.

PRESIDENTE. Ha la parola Drudi per la Cna.

Giuliano DRUDI, CNA. Voglio ringraziare la Presidenza del Consiglio regionale per l'occasione che ancora una volta ci è offerta di dare il nostro contributo sulle tematiche aperte per la definizione dello Statuto.
La Cna ha sempre sottolineato - e lo ribadiamo in questa occasione solenne - la necessità di un percorso aperto e partecipato per poter giungere ad un impianto istituzionale nuovo e capace di rilanciare la Regione, il suo modo di essere, di funzionare e quindi di essere percepita dai marchigiani.
Abbiamo prodotto su questo - e presentato in un recente convegno - un articolato documento di proposte a cui necessariamente rinvio. Partecipiamo al dibattito con la convinzione che il processo federalista debba andare avanti e con l'attesa che dalla sua concreta applicazione possa venire una risposta alle aspettative del sistema dell'artigianato e delle imprese di minore dimensioni.
La ricchezza e la competitività di tante aree del Paese, come delle Marche, poggia su sistemi locali di sviluppo in cui le variabili del successo sono dimensione e territorio.
Questo richiede politiche di sostegno davvero nuove ed un punto di principio ineludibile: lo sviluppo locale non può più essere pensato dall'esterno e gestito dall'alto.
Allo stesso tempo dobbiamo evitare di trasformare il federalismo in localismo ed in campanilismo. Dobbiamo evitare la tentazione di rinchiuderci in ambiti spaziali sempre più ristretti e con la presunzione dell'autosufficienza. Sarebbe un tragico errore che la competizione del mercato globale ci farebbe pagare immediatamente.
Nelle ricerche del professor Diamanti ed in quella del Censis abbiamo trovato una rappresentazione di sentimenti diffusi nella società marchigiana in cui ci riconosciamo pienamente e che riteniamo debbano costituire principi forti del nuovo Statuto delle Marche.
Non siamo per niente sorpresi, per esempio, dell'esistenza di un ampio consenso dei marchigiani verso l'intervento pubblico nei servizi sociali e sanitari; del fatto che la maggioranza dei cittadini non vuole che l'articolazione statale si ritiri da questi servizi; che debbano permanere meccanismi redistributivi a tutela delle fasce deboli e quindi che sia il welfare e non il mercato a garantire, anche attraverso il federalismo fiscale, cooperazione, solidarietà e servizi uniformi sul territorio.
Il disegno istituzionale che la CNA persegue - e che riteniamo debba affermarsi nel nuovo Statuto - deve avere a riferimento un modello di sviluppo in grado di creare ricchezza e di mantenere coesione sociale, di sviluppare competitività grazie all'innovazione, nel rispetto dei diritti e nella valorizzazione del qualificato tessuto di servizi sociali.
Riteniamo che una delle ragioni del successo del "modello marchigiano" stia anche nella variabile costituita, intorno al sistema delle imprese, da una fitta rete di servizi sociali e sanitari. Una rete di aiuto e di garanzia anche per gli artigiani, per i piccoli imprenditori e i loro collaboratori, per tutti i cittadini.
Questa rete va estesa e deve assicurare servizi innovativi in quei settori decisivi per lo sviluppo, come la formazione, l'aggiornamento delle competenze, la riqualificazione professionale, le infrastrutture. Lo Statuto deve cogliere questi elementi e valorizzarli.
Vogliamo che siano anche colte pienamente ed in modo innovativo le questioni della partecipazione e della concertazione. Per aumentare la coesione sociale. Non vogliamo che si elimini la responsabilità ed il ruolo che è proprio degli organi assembleari e di governo, e neanche il conflitto tra forze che sono anche parti sociali e quindi rappresentanza di interessi spesso contrapposti.
Occorre riflettere con grande apertura sugli attuali strumenti di partecipazione disponibili e riconoscere la loro insufficienza. Il nuovo disegno costituzionale lascia su questo ampio spazio ed occorre, tanto sul versante della partecipazione delle rappresentanze delle autonomie locali, quanto su quello delle parti sociali, una reale innovazione.
La CNA ritiene che il salto statutario che si dovrebbe compiere sta nel sancire un organismo delle forze sociali ed economiche con propria autonoma struttura, che sia interlocutore sia del Consiglio che della Giunta regionale. Un organo di partecipazione con possibilità di proposizione legislativa, che non sostituisce la concertazione, ma l'aiuta, la sostiene, (si potrebbe dire ne fa l'istruttoria) consentendo a tutte le forze sociali ed economiche di conoscere gli atti in formazione ed anche di proporne.
Un organo che è tenuto ad esprimere pareri, così come l'amministrazione è tenuta a richiederli. Uno snodo per favorire anche lo sviluppo di forme di intese, patti e programmi a livello sub regionale: un aiuto a superare la frammentazione localistica che spesso è un ostacolo al dispiegarsi di progetti alti, unitari rispetto alla dimensione regionale e sovraregionale.
Anche la nostra organizzazione, pur condividendo il disegno istituzionale dal basso, percepisce come le attuali carenze strutturali dei Comuni più piccoli debbano essere superate per consentire alle realtà locali di essere realmente in grado di poter esercitare i poteri e le competenze ad essi attribuiti.
Nel caso delle competenze che si rivolgono allo sviluppo economico e alla vita delle imprese questo è ancora di più evidente: la dimensione municipale pur essendo quella più forte e di più immediata identificazione di ogni cittadino è quasi sempre inadeguata.
Costruire gli statuti con rapporti e strumenti di cooperazione e di partecipazione sarà un altro passo nell'attuazione di un federalismo che valorizzi ed esalti le specificità regionali, ma sia anche portatore delle esigenze della solidarietà nazionale.
In merito al federalismo occorre evitare di dar luogo ad un modello sostanzialmente neo-centralista, in cui le Regioni si sostituiscono allo Stato per funzioni, competenze e risorse.
C'è un altro rischio: è quello di trovarsi sempre più spesso di fronte a un bivio tra promuovere lo sviluppo economico o salvaguardare le tutele dello Stato sociale. Secondo noi si tratterebbe comunque di una scelta perdente perché i due aspetti del problema sono indissolubili e devono procedere di pari passo. Non si ha coesione sociale senza sviluppo economico e lo sviluppo economico è a rischio se viene meno la coesione sociale.
In questi anni ci siamo impegnati affinché nella nostra regione prevalesse il federalismo della solidarietà e della tutela degli interessi generali che insistono sull'intero sistema territoriale di riferimento. Un federalismo dove il sostegno alle imprese e la tutela del Welfare non siano visti come contrapposizione ma come sintesi dell'azione politica e di Governo. Dove ciascun soggetto (istituzione, ente locale, associazione) si senta parte di un unico progetto di sviluppo e non in competizione con gli altri protagonisti del territorio. Il federalismo che ci vede convinti sostenitori è un federalismo che unisce e non che divide. E la convinzione che il federalismo o sarà solidale o produrrà sconquassi immensi, competizioni feroci tra sistemi territoriali limitrofi, prestazioni sanitarie differenziate da regione a regione, non è una scelta fideistica oppure ideologica.
E' una scelta razionale fondata sulla convinzione che il sistema dell'artigianato e della piccola e media impresa che rappresentiamo, ha tutto da guadagnare da un sistema sociale ed economico coeso e solidale capace di garantire loro servizi essenziali come imprenditori e come cittadini: aree artigianali per i loro capannoni e asili per i loro figli, strade per le loro merci e ospedali per i loro familiari.
Insomma, deve mantenersi un equilibrio tra spesa per il sostegno alla competitività del sistema economico e spesa per gli interventi sociali. Tutto questo poggia su due questione più generali: quella di garantire solidarietà ai sistemi territoriali in ritardo di sviluppo e quella di garantire a tutti i cittadini italiani livelli uniformi di diritti e di assistenza.
Si tratta di una strada difficile, lastricata di ostacoli e che non può vedere le associazioni di rappresentanza sociale ed economica in una posizione passiva di spettatori.
Ribadiamo in questo contesto non solo la richiesta ma l'utilità di proseguire in un percorso concertato con le istituzioni regionali.
Una concertazione diversa da quella praticata fino ad oggi, finalizzata non più e non solo al risanamento economico e all'ingresso in Europa.
In questo contesto, anche le organizzazioni sono chiamate a ridisegnarsi.
Ci sarà un passaggio importante per le Organizzazioni stesse nello svolgere una funzione non legislativa ma di opinione politica e di pressione che è quella del rendere coerenti le diverse spinte regionali con un disegno organico di tutela degli interessi nazionali.
Un ruolo ancor più importante nelle Marche dove vi è una imprenditoria piccola e diffusa, con un imprenditore ogni dieci abitanti.
Qui le associazioni artigiane svolgono una funzione di raccordo e di sintesi delle spinte policentriche attraverso la loro presenza capillare nel territorio a fianco delle piccole imprese.
E' questa la grande scommessa del nuovo decennio.
Per vincerla, la Cna è pronta a fare la sua parte insieme alla Regione, agli enti locali, alle autonomie funzionali ed alle rappresentanze economiche e sociali.

PRESIDENTE. Ha la parola il consigliere Mollaroli.

Adriana MOLLAROLI, Consigliere Regione Marche. Sarò brevissima e consegnerò agli atti di questo nostro incontro il mio intervento più organico. Mi premeva fare una riflessione, che credo possa essere utile sia al prof. Diamanti che al Presidente della Giunta che dovrà concludere, sulle politiche demografiche, perché mi pare che se ne siano tenuti in considerazione, anche in questo Consiglio, gli effetti e non le cause.
In questi giorni abbiamo di fronte a noi anche i dati del censimento che ci stanno dimostrando che c'è un aumento notevole delle donne (la popolazione marchigiana è prevalentemente femminile); c'è un dato positivo che è quello dell'invecchiamento della popolazione che ritengo sia un effetto positivo. Ma c'è una causa sulla quale ragionare: si fanno meno figli. E' un dato serio, tra l'altro l'Italia tra i Paesi industrialmente più avanzati ha questo dato negativo e le Marche dentro l'Italia. Vuol dire che ci dovremo dare politiche sociali e ripensare anche le politiche dei nostri servizi a partire da questo.
Le Marche fino ad ora hanno avuto nella famiglia patriarcale, nella famiglia tradizionale una delle istituzioni più conservatrici, che ci hanno consentito anche di avere la coesione sociale a cui spesso faccio riferimento ma anche questa è finita: le famiglie moderne sono altra cosa, il ruolo della donna nella società e nella famiglia è altra cosa. Mi pare che sia da tenere nella dovuta considerazione sia per quanto riguarda le questioni della rappresentanza della donne nella riforma statutaria che dovremo fare e che per noi sarà la vera Costituzione, sia nelle politiche sociali, sia nelle politiche del lavoro. Mi pareva che in questo dibattito — pur se lo faccio in tempi molto rapidi e in maniera frammentata, ma consegnerò un testo scritto e più argomentato — occorresse tenere in considerazione questo aspetto che non mi pare assolutamente cosa secondaria, con la quale occorre adeguatamente fare i conti.

PRESIDENTE. Ha la parola Fuselli per la Coldiretti.

Luciano FUSELLI, Coldiretti. La Coldiretti ha voluto partecipare a questo dibattito che riteniamo preliminare alla stesura dello Statuto di questa regione, perché crediamo che sia un momento importantissimo per la nostra comunità e quindi a questo momento vogliamo partecipare.
Si è disquisito nella relazione che ci è stata presentata da Lapolis, attorno al concetto dell'identità di questa regione. Si è fotografata in questo studio una caratteristica della regione Marche, che è quella di essere regione intermedia fatta di tante piccole entità. Riteniamo che valga la pena di valutare se questa caratteristica è un handicap oppure una opportunità. Come Coldiretti pensiamo che questa sia una opportunità per sperimentare soluzioni di qualità ai problemi dell'Italia media, come nella relazione è emerso nel confronto fatto fra la Regione Marche e le altre Regioni del nord-est e centro dell'Italia. Quindi sperimentare soluzioni di qualità sfruttando questo sentimento di adesione che c'è da parte del cittadino marchigiano verso le istituzioni. Va colta l'occasione della riscrizione della "Carta delle regole", per fissare non tanto luoghi e forme ma principi e valori per il corretto esercizio della democrazia elettiva e del governo del territorio della Regione Marche. Lo Statuto può quindi essere l'occasione per far recepire a tutta la comunità regionale il nuovo modello di agricoltura che si sta delineando in questa regione. E' un modello che si integra perfettamente con il disegno, con la fotografia che è stata fatta della società di questa regione, perché è un modello di agricoltura fatta di imprese, quella che è stata definita la "famiglia-impresa". L'agricoltura marchigiana ha già da tempo avviato al suo interno un processo di rigenerazione, ha già avviato al suo interno un processo di trasformazione che la sta identificando come impresa non solo agricola ma multifunzionale che svolge servizi fondamentali per questa società, quindi riteniamo che sia a tutti gli effetti un'impresa che possa concorrere a partecipare ai progetti di sviluppo di questa regione.
L'agricoltura ha ancora oggi una sua valenza economica che è la sua dignità operativa: 2,85% del pil ma fatta anche di tanti servizi forniti a questa società. Allo stesso tempo abbiamo detto che assolve a queste sue funzioni. In particolare, quello che ci preme mettere in evidenza questa mattina, è che, come nelle relazioni è emerso che c'è da parte del cittadino marchigiano un calo di sicurezza nel percepire l'organizzazione sociale, noi riteniamo che se non si presta la dovuta attenzione all'agricoltura finiremo per perdere anche altre sicurezze che invece, ad oggi, non ci risulta siano percepite dai cittadini;: sto parlando della sicurezza alimentare — l'abbiamo visto durante la crisi BSE molto meno condizionante in questa regione — ambientale e sanitaria.
Lei Presidente, all'inizio della seduta ci ha invitato a pensare allo Statuto come strumento che organizzi il sistema delle rappresentanze. Diventa fondamentale individuare quei principi e quei valori che, attraverso lo Statuto, ci consentano di realizzare appieno il principio della sussidiarietà, non solo verticale come di fatto realizzato in questa regione, quindi nel confronto fra le varie istituzioni di questa regione, ma soprattutto sussidiarietà di tipo orizzontale con le multiformi forze sociali che questa regione esprime. In conclusione, per essere il più rapido possibile dico che come Coldiretti sposiamo appieno, tra le ipotesi che sono state formulate per pensare a progetti di sviluppo per questa regione, la terza ipotesi che, secondo noi, realizza in maniera compiuta il principio della sussidiarietà, perché dà a questa regione-arcipelago la possibilità di creare delle reti, delle interconnessioni tra le piccole realtà, sia economiche che sociali, che insieme elaborino progetti di sviluppo per il futuro.

PRESIDENTE. Ha la parola Vito D'Ambrosio per le conclusioni.

Vito D'AMBROSIO, Presidente Giunta Regione Marche. Parlare di conclusioni mi sembra una parola grande per due ragioni. Anzitutto perché la prima parte del dibattito non l'ho potuta ascoltare in quanto avevo un altro impegno istituzionale, poi perché credo che quella di oggi non sia la tappa conclusiva ma sua una tappa. Con questo tipo di premessa posso provare a mettere in fila alcune riflessioni su un tema così ampio e così assolutamente fluido come quello di cui stiamo parlando.
Ci troviamo contemporaneamente in mezzo a un momento di riforme incrociantisi a livello istituzionale, difficili da gestire, di fronte a momenti di ulteriore complessità della società — e anche questo è un elemento che dobbiamo tenere molto presente — ci troviamo di fronte a un progredire disordinato di fenomeni generali di globalizzazione e ci troviamo anche di fronte ad un problema quale quello che stiamo attraversando in questi giorni, che non dobbiamo dimenticare mai, perché è uno sfondo conflittuale alle porte di casa nostra, che non è dato che possiamo ignorare perché ci condizionerà e comunque avrà impatti, conseguenze e riflessi anche sulla nostra organizzazione socio-culturale ed economica — ad un problema molto difficile e complesso.
Facendo queste premesse vorrei indicare due o tre punti che mi sembrano già abbastanza significativi.
E' indubbio che non si può più pretendere di governare società così complesse da un unico ponte di comando; il ponte di comando può moltiplicarsi, ma la stanza dei bottoni deve essere unica o deve essere comunque duplicata. Questo per dire che noi, ieri — per fare un esempio — abbiamo approvato il primo piano delle attività estrattive da quando esiste la Regione e mi sembra un punto di grande importanza, però contemporaneamente abbiamo approvato un piano i cui passaggi successivi sono affidati ad altri soggetti istituzionali e che quindi dobbiamo capire come poi governare e in un certo senso seguire nel percorso successivo dopo l'approvazione del Consiglio regionale. Così come abbiamo non più tardi di otto giorni fa trasferito agli altri governi sul territorio una serie di funzioni e 500 dipendenti; un momento di trasferimento tutto sommato senza contraccolpi, se non minimi, prima Regione in Italia, però dobbiamo capire che cosa questo significa sul nostro svolgere, sul nostro reinterpretare il ruolo, perché è chiaro che se si trasferisce per gestire altrove e poi si pretende di voler continuare a gestire, magari surrettiziamente, c'è poi un momento di sovrapposizione di funzioni che è completamente negativo e che va evitato assolutamente.
Due-tre punti e traiettorie lungo le quali, secondo me, dobbiamo continuare a confrontarci.
Si parla dello Statuto. E' vero, lo Statuto sarà la Costituzione della regione. Però è altrettanto vero che il momento costituzionale ha un senso, un valore, una capacità mobilitante se si pone al termine di un percorso di coinvolgimento di capacità di apertura, se si pone al termine di un percorso che nasce all'insegna di costruzione di qualcosa di totalmente nuovo al posto del vecchio ecc. Noi, oggi non abbiamo questo tipo di situazione: non ce l'abbiamo a livello di attenzione o di recepimento da parte dell'opinione pubblica, ce l'abbiamo in maniera notevole a livello di costruzione di un nuovo modello di Repubblica. Noi stiamo costruendo un nuovo modello di Repubblica, non possiamo nemmeno più dire "nuovo modello di Stato", dovremo cambiare anche il nostro lessico, perché la riforma, quella piccola riforma del titolo V della Costituzione — è piccola tenendo conto di tutto — ha già comportato che è la Repubblica che è composta da Stato, Regioni, Province, Comuni, tutti equiordinati. Questo è già un primo elemento di notevole difficoltà.
Il secondo elemento che si intreccia a questo, è che quando sento parlare di principio di sussidiarietà lo trovo molto appropriato, molto significativo, però estremamente difficile da concretizzare, perché se il principio di sussidiarietà non si collega con forza al principio di sufficienza e di efficienza diventa un principio di dispersione, addirittura di frustrazione.
Come si traduce, questo, nell'ambito di una costruzione che riguarda il principio di sussidiarietà più sotto l'aspetto verticale che orizzontale? Si traduce in una realtà come quella della nostra regione — e in questo non è un'eccezione italiana — di costruire punti di riferimento, di gestione di servizi che siano sufficienti. In sostanza, questo significa incoraggiare al massimo i momenti aggregativi di associazioni fra Comuni. Non è pensabile che lo stesso tipo di funzioni vengano svolte, come potrebbe essere una delle letture, a livello del massimo Comune (Ancona) e a livello del minimo Comune (Acquacanina). La differenza è fra 100.000 abitanti e un po' meno di 100 abitanti.
E' chiaro che questo tipo di fenomeno si può governare soltanto impostando una nuova forma organizzativa che non è tradizionale per l'Italia e non è tradizionale nemmeno per la nostra regione. Qui valgono le osservazioni che faceva Ilvo Diamanti sul fatto che la nostra regione è una "piccola patria di piccole patrie". Mi dicono che nell'ambito della sede municipale di San Paolo di Jesi c'è ancora una lapide che celebra l'indipendenza da Jesi, che è lì. Questa è la realtà nella quale dobbiamo costruire quello che dicevo. Però, se non facciamo così è chiaro che ci avviamo verso una forma di sfarinamento la cui conclusione sarà che tutto questo imponente movimento per cui si è deciso che Roma non può governare tutta l'Italia perché non ne ha conoscenza e quindi non ne ha capacità, comporterà un tipo di risposta di disorganizzazione spinta o, ancora peggio, una organizzazione a macchia di leopardi per cui, superando un fiume ci saranno differenze tali da far sentire gli italiani come se vivessero in una serie di piccole patrie, addirittura istituzionalizzate. Questo è uno degli elementi principali su cui dobbiamo lavorare e dobbiamo avviarci da subito. Non è necessario nemmeno pensare a strutture nuove, a grandi riforme normative. Sulla base della normativa che già abbiamo, possiamo e dobbiamo incamminarci su questo tipo di percorso.
Altri elementi. Questa è una società, una regione che nel suo piccolo — in questo anche sono d'accordo con Diamanti — ha delle differenze notevoli che vanno sempre più aumentando, sulla base di un fil rouge, di una linea di sentire sociale che è ancora abbastanza omogeneo. Si tratta di capire come, dal punto di vista di chi governa la regione, si può cogliere l'elemento positivo della differenza, mantenendo un discorso di coesione sociale che è ancora abbastanza solida in questa regione e che la fa notevolmente diversa, non solo per dimensioni quantitative, da altre regioni che hanno un modello economico analogo — le famose regioni del NEC: penso soprattutto al Veneto ma penso anche all'Emilia — dove il discorso e il valore della coesione sociale è molto più basso e quindi pone problemi per il suo mantenimento, per quello che è positivo e che deve restare.
Il livello decisionale ultimo, che è un livello politico, ma soprattutto il livello di governance, che è il livello della responsabilità condivisa delle classi dirigenti e della classe dirigente in generale della quale parlava Ugo Ascoli e che mi trova assolutamente d'accordo, deve essere tale da capire quali sono le linee, quali sono le prospettive per le quali si possa recuperare il positivo e lasciar perdere quel localismo che anch'io ritengo sia un tallone d'Achille, un segnale di debolezza della nostra regione: il localismo municipalistico è spesso, nella nostra regione, momento prodromico a scontri accesi, quindi a immobilismi decisionali, quindi è paralisi decisionale. La paralisi decisionale è comunque un dato negativo che nella migliore delle ipotesi comporta una fase di degrado della situazione, nella peggiore delle ipotesi comporta reazioni populistiche, di rifiuto della politica, perché viene vista, viene vissuta come democrazia non decidente, quindi come luogo in cui non si decide, si decide solo di non decidere.
Credo che dobbiamo cominciare a impostare alcune linee.
La prima è una attenzione ai fenomeni per accompagnarli e non per governarli accompagnandoli e non governarli imponendo modelli di trasformazione. Da questo punto di vista credo che vada recuperato non il concetto di distretto, che anch'io sono d'accordo è ormai superato, ma la mentalità distrettuale per cui, in sostanza, l'ingegnosità e l'intraprendenza, proprio come tendenza e propensione all'intrapresa della popolazione marchigiana sono riuscite a rispondere alla sfida e all'handicap che poteva essere in una sfida nazionale e internazionale, rappresentata dalle dimensioni piccole della regione.
La Regione è a rete, è a sistema, è quindi una Regione che da questo punto di vista non può imporre modelli — la Regione come istituzione — ma può cercare di capire quali sono i modelli e le risposte forti e vincenti per accompagnarle. Non possiamo ritenere di diventare la piattaforma dei modelli, perché non ne abbiamo le dimensioni, perché non ne abbiamo la capacità e perché secondo me sarebbe sbagliato. Io sono profondamente convinto che la società vada guidata e accompagnata e non coartata. Se va guidata e accompagnata dobbiamo capire che su alcune linee dobbiamo spingere la nostra capacità di accompagnare al livello di innovazione tecnologica, ce lo diciamo sempre, ma poi significa inserire elementi concreti di società dell'informazione, dell'informatica, della telematica, con tutto ciò che questo comporta. Dobbiamo capire come riuscire a utilizzare al meglio quella autentica risorsa che è — da un altro punto di vista è un dato negativo — la presenza di ben quattro atenei che ormai tradizionalmente sono quattro atenei, ma sostanzialmente nel territorio si stanno moltiplicando sempre di più. Come riusciamo noi a mantenere la sfida che abbiamo di fronte? Come riusciamo a mantenere questa realtà come una realtà di appoggio forte per poter rispondere in maniera alta alla sfida globale e nello stesso tempo a rispondere anche all'altra esigenza che non va trascurata del tutto, per cui fra un po' avremo un'università ad ogni portone?
Questo è l'altro elemento su cui dobbiamo cominciare a calibrarci, non possiamo pensare che i quattro atenei si moltiplichino sul territorio senza un rischio grandissimo nemmeno di licealizzazione ma di sub-licealizzazione dell'istruzione e soprattutto della ricerca, perché poi l'università non è solo istruzione ma è anche ricerca.
Come possiamo intervenire in questo? Stiamo cercando di intervenire lavorando e tentando di utilizzare al meglio le nostre responsabilità che stanno aumentando sempre di più in questo campo e i fondi che ci vengono, che sono in piccola parte nostra ma in grande parte nazionali ed europei, sono per capire dove far risuonare, nell'ambito dell'autonomia universitaria che è un valore che non vogliamo toccare, risposte a esigenze che secondo noi sono fondamentali, in questo momento, nell'ambito della nostra società e della costruzione della nostra società.
Diceva prima Ascoli "ci troviamo in una società che ha caratteristiche demografiche che ormai sono di un certo tipo", come ribadiva Mollaroli. E' una società vecchia, nella quale si vive bene e i cittadini percepiscono questa qualità della vita in maniera positiva, è una società nella quale c'è un aumento — è un trend generale in Italia — della componente femminile, ma una società che ha un tasso di natalità fra i più bassi in Italia: siamo la terza-quarta regione come tasso di natalità. Questo cosa significa? Non bisogna essere dei demografi, dei sociologi o degli psicologi per capirlo: significa che è una società stanca, che preferisce il vecchio al nuovo perché il nuovo è comunque una sfida ed è motivo di insicurezza. E' una società che cerca sicurezza, quindi una società che corre il rischio di vivere i cambiamenti come elementi ansiogeni. Nello stesso tempo, essendo una società attenta ai valori economici, è una società nella quale si capisce che una delle risposte fondamentali è l'apertura al fenomeno dell'immigrazione, quindi dell'inserimento sociale. Questa è una società nella quale si sta verificando fino ad ora, per fortuna in maniera positiva, un fenomeno tutt'altro che trascurabile quantitativamente, di integrazione sociale. Noi abbiamo più del 60% degli equipaggi delle nostre flotte pescherecce rappresentati da cittadini soprattutto maghrebini e nordafricani. Abbiamo una diffusione sempre maggiore — è tipico della nostra società — non di strutture di appoggio agli anziani ma di affidamento della cura degli anziani — non voglio usare l'orrendo termine di "badante", perché mi dà un fastidio terribile — a soggetti che sono fino ad ora sempre più non italiani e sempre più, ormai, extracomunitari; non più extracomunitari del nord Africa ma anche dell'est Europa, filippini, peruviani, cileni.
Questo tipo di realtà ci fa capire che dobbiamo misurarci su alcuni ulteriori elementi che sono le sfide del domani ma che sono già le sfide dell'oggi. A me hanno chiesto già, come presidente della Giunta regionale, da parte della nostra comunità islamica che cresce esponenzialmente, il permesso — l'hanno chiesto a me impropriamente — di avere i loro primi cimiteri musulmani. Ovviamente a questo si legherà, subito dopo, la richiesta di avere dei luoghi di culto. Ma già adesso ci troviamo a governare o comunque ad affrontare una situazione nella quale c'è la presenza di numerosi bambini che sono comunque di cultura e lingua araba, e quindi ci chiedono di organizzare, di fare da sponda o comunque di finanziare corsi di lingua araba nelle nostre scuole elementari.
Che cosa scegliamo, noi? Scegliamo il "modello Mazzara del Vallo" dove addirittura stanno organizzando scuole elementari classiche arabe, oppure scegliamo un modello di integrazione in cui ci sono un'ora o due la settimana di lingua, radici, cultura arabe per questi bambini? Questo è un altro degli elementi che nel concreto ci stanno facendo misurare queste cose e che dobbiamo sempre più impostare in ragioni più alte e più ampie.
Fatta la premessa che anche gli studi e le indagini di Diamanti hanno confermato, di una propensione al rischio di intrapresa, alla libera professione fra i marchigiani molto maggiore della media nazionale, come possiamo fare sponda e come possiamo utilizzare al massimo questo elemento per farlo diventare un elemento positivo, per farlo diventare un elemento che non sia avventuristicamente non sufficiente per farlo reggere alla competizione globale? Il discorso dell'internazionalizzazione è un discorso nel quale non può non vedersi un ruolo principale della Regione, ma non da sola, come momento che organizza tutto, coordina tutto, ma partecipa anche e alla fine gestisce anche. Quando noi diciamo che la Regione deve essere uno strumento, un organismo, una istituzione che soprattutto fa le leggi, soprattutto programma, soprattutto controlla che la programmazione vada bene e non gestisce questo è vero, ma ci sono alcuni dati, alcuni fenomeni che possono essere gestiti solo a livello regionale, e questo è uno dei fenomeni, uno dei campi in cui dobbiamo capire come gestire al meglio questo tipo di cose.
Questi sono alcuni esempi della nostra crescita virtuosa. Come si inseriscono in questi elementi i momenti che abbiamo davanti, che sono i momenti della costruzione del patto comune di cittadinanza e di convivenza — lo Statuto — e i momenti di una giusta collocazione del principio di sussidiarietà verso l'alto e verso il basso e a livello orizzontale? Questi sono i punti su cui dobbiamo muoverci. Azzardo qualche piccola risposta.
Innanzitutto — qui gioca forse la mia precedente esperienza professionale — non pensiamo che lo Statuto possa regolamentare tutte le ipotesi possibili e immaginabili. La legge che regolamenta tutto, se mai è esistita, non può esistere in una società così complicata. Possono essere indicati tendenze, modelli, cammini e percorsi ma non è possibile prevedere tutto per legge. Allora ci dobbiamo muovere verso uno Statuto che sia elastico, che sia corto, che indichi i principi e si vedrà volta per volta come questi principi si traducono nella realtà, perché è più facile cambiare una legge ordinaria che rimettere mano al patto di cittadinanza che dovrebbe avere una durata non dico perenne ma che dovrebbe durare almeno qualche decennio.
Se cominciamo con questo tipo di prospettiva, sdrammatizziamo quello che corre il rischio di diventare un problema vero, che è: come facciamo una consultazione efficace, un confronto con la società, come costruiamo uno Statuto che sia il precipitato della realtà sociale marchigiana? Se vogliamo fare uno Statuto che regolamenti tutto per i prossimi 40-50 anni dovremo fare almeno due anni di confronto a tutto campo. Invece se prevediamo momenti, strumenti, meccanismi che possano essere di modifica non dello Statuto ma del concreto trasformarsi dello Statuto in norma specifica abbiamo già superato una grande difficoltà.
Secondo elemento. Come vogliamo fare per costruire l'altro dato? Non esiste un federalismo che non sia basato su un federalismo fiscale. Il resto sono tutte balle. Se non riusciamo ad avere il governo della leva fiscale, sia pure non totalmente, e se quella leva rimane soltanto ai timidi abbozzi di federalismo fiscale che sono previsti dal D. Lgs. del 2000, siamo in una fase nella quale il federalismo si traduce uguale aumento della pressione fiscale, perché è soltanto un discorso di addizionali. Il discorso delle addizionali non va bene, ma questo significa che non è più consentito un gioco fra centro e periferia in cui uno dei due — il centro che ha la responsabilità e la capacità maggiore — giochi a scaricare sulla periferia.
Non per riportare al dibattito odierno ma il dibattito odierno è questo. La verità è che ci siamo trovati di fronte a una finanziaria e alle linee di politica economica di un Governo e che stiamo scaricando in maniera brutale, in maniera insostenibile sui governi periferici — Regioni, Province e Comuni — dei pesi che non sono sostenibili e che porteranno fra poco ad una situazione paradossale in cui si dovrà far fronte a nuove funzioni senza avere risorse.
Su questo dobbiamo cominciare a capire che un Paese serio affronta questo problema subito. E' la sottolineatura forte che abbiamo fatto a livello di Regioni, di Province e di Comuni in due incontri — uno solo delle Regioni, l'altro tutti quanti con il presidente del Consiglio dei ministri — in cui abbiamo posto questo problema in maniera risoluta, dicendo, oltretutto, che il cittadino alla fine non fa tanta distinzione, sente un peso fiscale complessivo e quindi si pone in posizioni che sono tendenzialmente di rifiuto fiscale. Il rifiuto fiscale è l'inizio di un momento di grande crisi della società, quindi questo dobbiamo evitarlo ma ci dobbiamo lavorare tutti insieme.
Come facciamo? Non lo so. Di idee ce ne sono tante, ma cominciamo a lavorare in maniera tale da arrivare ad un modello: il modello tedesco in cui si negozia anno dopo anno la percentuale del grande tributo nazionale che va ai laender rispetto allo Stato? Può essere. I länder tedeschi nel giro di dieci anni sono passati dal 37 al 50% dell'equivalente tedesco dell'Irpef che va ai governi regionali, negoziando anno dopo anno. Vogliamo fare il modello spagnolo o quello francese? Questo è un altro punto su cui dobbiamo capire. Lo Statuto, su questo ci può aiutare? Certo che ci può aiutare, però ci può aiutare soprattutto una convinzione condivisa e diffusa che chiunque governi questa Regione, indipendentemente dal colore, se non riesce ad avere una leva fiscale che sia una seria ipotesi di federalismo fiscale si troverà in difficoltà spaventose nel giro di poco e nel giro di sempre meno tempo. Questo è l'altro elemento su cui dobbiamo riflettere e, approfittando del momento di grande confronto con la società sui temi istituzionali, dobbiamo capire noi e far capire ai marchigiani che è un terreno su cui si gioca moltissima parte della possibilità stesa di costruire un altro modello alternativo.
Il modello di società è un modello nel quale, in sostanza, dobbiamo mantenere quel tipo di coesione sociale cogliendone gli elementi. Su che cosa si basa la coesione sociale, che ancora è abbastanza diffusa nelle Marche? Non mi azzardo a dare risposte, anche perché ho di fronte a me un grande sociologo, alle mie spalle un altro grande sociologo, fra l'altro non sempre in accordo fra di loro. Però, sicuramente ci sono alcuni valori portanti di questa nostra società che sono largamente condivisi. Se dovessi, banalizzando, dire qual è la caratteristica, è che in genere i marchigiani sono brave persone — io dico così — che significa tutta una serie di elementi e che ovviamente non significa essere sciocchi, ma che c'è un discorso di affidamento sul pubblico, frutto anche del fatto che è una società che ha un po' paura e che vuol essere tutelata, però si fida molto del pubblico, si fida abbastanza delle istituzioni, ha questa forma di solidarietà sociale ancora diffusa e ha soprattutto questo tipi radicamento territoriale il cui aspetto negativo è il municipalismo, ma che poi ha l'aspetto positivo dell'avere il gusto delle radici, non solo il culto delle radici.
Questi sono elementi che utilizzati bene possono consentirci di andare bene avanti e faccio un esempio immediato che in questi giorni credo che sia di assoluta attualità. Mi pare che si inauguri domani il più grande salone del vino in Europa, il "Vinitaly" di Verona. Leggendo un po' di riflessioni direi che da questo punto di vista noi siamo riusciti a utilizzare al meglio le caratteristiche dei terreni che ci davano dei vini con qualità organolettiche tipiche, per ottenere dei vini sempre migliori che siamo poi riusciti a mantenere, stabilizzare e rafforzare con interventi di genetica positiva, quindi un certo tipo di intervento tecnico — la nostra facoltà di agraria, quella della Cattolica di Milano ecc. — per cui oggi i nostri vini sono competitivi in ambito nazionale ma anche in ambito internazionale. Una regione come la nostra che produceva soltanto vino da taglio e vino in anfora che aveva invaso gli Stati Uniti d'America più per la bellezza e l'originalità della bottiglia che per il contenuto, oggi produce vini che in giro per il mondo continuano ad ottenere riconoscimenti internazionali. Gli agricoltori possono poi aggiungere ulteriori elementi di riflessione su come questo può diventare un momento importante di una filiera complessiva che sta radicando di nuovo una certa percentuale non indifferente di popolazione.
Questi sono i punti su cui dobbiamo concentrare le nostre attenzioni, quindi dobbiamo avere la capacità di utilizzare al massimo occasioni come queste in cui qualcuno ci ha studiato questa società e ce ne porta uno spaccato che ci serve per capire dove andare; capire anche che non "piccolo e bello", ma "piccolo in rete a sistema" può essere bello e può essere, soprattutto, solido in una competizione che ormai è mondiale; a noi classe dirigente, a noi decisori politici spetta individuare i percorsi, i fenomeni, le linee forti, virtuose da rafforzare cercando di stoppare le altre. Ogni tanto dobbiamo anche assumerci il rischio e la responsabilità di decidere sulla base di prospettive che non sono fino a quel momento condivise da tutti, ma questo è il gioco della democrazia: se si sbaglia c'è poi il momento del controllo democratico che dirà che quella cosa era stata in quel momento sbagliata.
Questo credo che sia il tipo di riflessione alla fine di una giornata come questa, quindi non è importante avere finito in 25 ma è importante avere messo in circolo e cercare di mettere in circolo sempre di più questo tipo di messaggi che non sono imbottigliati, quindi non si sono indirizzati chissà dove ma sono messaggi che cercano di avere delle risposte. Sulla base della capacità dei messaggi di stimolare risposte, capiremo anche la validità dei messaggi stessi e soprattutto dobbiamo capire come poi mettere insieme le risposte e arrivare, alla fine, ad una prima prospettiva di cammino ulteriore, di impostazione di cammino ulteriore, che secondo me, a quel punto, potrà diventare anche un'ipotesi di Statuto, uno Statuto che ci consenta poi di andare avanti, misurando nel concreto, una volta stabiliti i principi generali, come li governiamo volta per volta secondo le prospettive che ho detto prima. Più di questo non credo di dover e di poter dire.

PRESIDENTE. Grazie, Presidente. Nel chiudere questa giornata di intensi lavori — abbiamo finito alle 15, e questo dà il senso dell'importanza del nostro lavoro — ringrazio anzitutto il prof. Diamanti, tutti coloro che sono intervenuti, che ci hanno dato il loro contributo e voglio scusarmi con coloro che non hanno potuto prendere la parola perché l'elenco era lunghissimo. L'impegno, per noi, è comunque di utilizzare il loro contributo su carta, inserendo il loro intervento agli atti dei nostri lavori. Gli atti saranno anche pubblicati sul sito per divulgare il loro pensiero e farlo conoscere. Vi ringrazio.


La seduta termina alle 15,00